Peter Eisenman: verso una visione affettiva dello spazio
Autore: Michele Costanzo
L'attività di Peter Eisenman è stata oggetto di costante interesse da parte del nostro paese fin dal suo affacciarsi sulla scena internazionale; più precisamente, a partire dall'incisivo inquadramento critico tracciato da Manfredo Tafuri in Les bijoux indiscrets. Lo scritto, circoscritto al periodo delle houses, cerca di portare alla luce l'intreccio delle radici che ne sostengono l'impianto ideativo, tutto rivolto alla sintassi della forma; senza, peraltro, tralasciare la portata dell'azione innovativa, particolarmente indirizzata al tessuto culturale americano sviluppata unitamente agli amici del gruppo dei Fives, tesa ad abbattere «l'aporia centrale del movimento moderno; vale a dire, l'architettura "come oggetto trascurabile"»[1]. Tale feeling, manifestato in Italia nei confronti della sua ricerca, sarà simmetricamente corrisposto dall'architetto newyorkese, come è testimoniato dalla lunga sequenza di studi e riflessioni rivolte a Palladio, a Piranesi e, soprattutto, a una delle figure più rappresentative del nostro razionalismo, Giuseppe Terragni o, a città storiche quali Venezia, Verona, Roma ed altri centri minori, attraverso alcuni tra i suoi più significativi progetti teorici. Il saggio di Pippo Ciorra, pubblicato nel 1993, è il primo interessante tentativo che cerca di delineare, nella nostra lingua, un quadro organico dell'attività teorico-progettuale dell'architetto americano. Il volume ripercorre l'intricato cammino che va dalla serie delle prime ville (dalla House I a Princeton, alla House XIa, a Palo Alto), a più impegnativi progetti per campus universitari (dal Wexner Center for the Visual Arts and Fine Arts Library, a Columbus (1983-89), al Biocentrum, a Francoforte (1986-87), al Carnegie-Mellon Research Institute, a Pittsburgh (1987-89) e all'Aronof Center for Design and Art, a Cincinnati (1988-96), recentemente realizzato), fino a concludersi con due suggestive proposte corrispondenti ad altrettanti importanti centri della Germania: il Rebstock Park, a Francoforte (1990) e il Max Reinhardt Haus, a Berlino (1992). Rileggendo, con uno spirito maggiormente rivolto al presente, il percorso progettuale eisenmaniano efficacemente delineato da Ciorra, si possono distinguere due tratti. Nel primo, il soggetto della sperimentazione è la piccola costruzione, la house, che viene manipolata attraverso «procedimenti (...) razionalisti di astrazione e autoriflessione»[2], utilizzando gli elementi linguistici del modernismo per mettere in crisi la sua stessa logica costruttiva. Nel secondo, l'organismo assume un carattere urbano; il luogo diventa un fondamentale elemento di identità nel processo di definizione dell'immagine; l'operazione che svolge, allora, è quella di cercare di far riaffiorare tutto ciò che del sito è stato dimenticato o rimasto inespresso. Nel passaggio tra la prima e la seconda fase di tale itinerario creativo, si inserisce un breve momento intermedio che Giorgio Ciucci analizza in Ennesimeanamnesie, uno testo assai penetrante che introduce lo scritto di Ciorra. Tale periodo prende inizio nell'estate del 1978, con la crisi derivata dall'interruzione del rapporto con il proprietario della House X. «Il cliente voleva iniziare la realizzazione della House X quell'estate mentre io volevo andare a Venezia», ricorda Eisenman, «Quando sono tornato, la casa era stata abbandonata. E' stato quello il momento in cui sono entrato in terapia. Avevo lavorato molto su quella casa e poi non veniva realizzata. Tutto questo ha creato un cambiamento nella mia architettura»[3]. Eisenman si reca, dunque, a Venezia per realizzare il progetto per Cannaregio; l'esperienza risulterà per lui fondamentale e, in vario modo, influenzerà gli sviluppi del periodo successivo. Questa fase di svolta troverà la sua conclusione nel 1981 con il progetto per Checkpoint Charlie a Berlino (realizzato, poi, nel 1985); «House XIa, House El Even Odd, Fin d'Ou T Hou S, tutti questi progetti», afferma Eisenman, «sono alla base di Cannaregio e Berlino»[4]. I lavori di questo periodo, osserva Ciucci, sono il riflesso di una operazione 'dislocativa' che Eisenman attua «spostandosi, spostandoci da un senso, una direzione, un significato, un piano, uno spazio, a un altro, fino all'apparente non-senso, non-direzione, non-significato, non-piano, non-spazio. Fino all'intenzione di realizzare muri non solidi, vetri e spazi solidi, espressa nella House II, del 1969»[5]. Più avanti, l'autore sottolinea il rilievo che vengono ad assumere, per Eisenman, qualità come l'inafferrabilità, la poeticità, l'inesplicabilità che, pur trascendendo il livello più immediato della loro comunicazione, risultano determinanti per la comprensione e l'approfondimento del messaggio racchiuso nell'opera. In questo modo, i progetti vengono accompagnati da giochi di parole spesso intraducibili, ma idealmente vicini al suo modo di progettare. Tali frasi sono considerate da Ciucci «come espressioni simboliche di contenuti profondi, momenti in cui si rivela anche il sostrato che egli crede esista indipendentemente da ciascuno di noi; giochi che è portato a pensare gli si rivelino al momento opportuno, pur cosciente che questa opportunità va provocata»[6]. Tra queste, ricordiamo il «progetto intitolato "House El Even Odd" (da leggere come Casa Undici Strana oppure Casa L -a forma di L che è anche la dodicesima lettera dell'alfabeto inglese- Ancora Dispari), o alla "Fin d'Ou T Hou S" (da leggere all'inglese, find out house, casa da scoprire, o alla francese, fin de tous, fine di tutti)»[7].
Dall'analisi dei numerosi progetti che si sono susseguiti in questi anni, da quelli monofamiliari alle opere più recenti, nonostante l'apparente diversità di impostazione degli impianti, determinata dalla loro particolare condizione di 'strumento' di sperimentazione teorica, emerge con una certa evidenza un sottile legame che li unisce e che li pone in una sorta di concatenazione logica (anche se non legata da un nesso causale). Questo è dovuto all'idea di fondo che percorre ciascuna di tali esperienze: la volontà di superamento del funzionalismo che sembra voler imbrigliare la forma chiudendola all'interno di una gabbia, comprimendola, limitandola, deformandola, svuotandola di senso. «Non è possibile parlare di architettura senza parlare della forma», nota Eisenman, «perché è il solo linguaggio in cui il mezzo, cioè la colonna, il muro o il pavimento, vale sia come icona che come segno. In altre parole ciò che è significato e ciò che è significante corrispondono sempre alla presenza fisica della colonna. Noi non leggiamo la forma dei caratteri della parola "colonna", non importa la forma della parola scritta, ma la forma della parola costruita che cambia la relazione tra la forma stessa e il significato. Qui sta la differenza fra architettura e linguaggio, nel fatto che in architettura dobbiamo leggere la forma come uno strumento didattico e per leggere la forma dobbiamo separarla dal suo mezzo, che è la funzione»[8]. E' così che, nell'opera di Eisenman la volontà di affermazione dell'espressione architettonica, intesa come esigenza di riconquista della propria autonomia di linguaggio, assume un ruolo particolarmente significativo. «Dobbiamo superare quello che Walter Benjamin dice a proposito dell'architettura», egli afferma, «che è circondata dall'indifferenza della gente, dato che non è messa in cornice né su un piedistallo come una scultura o un dipinto, insomma che viene data per scontata. Ma se vogliamo strutturare l'architettura, cioè essere in grado di scriverla come nel caso della pittura, della poesia e della letteratura, dobbiamo essere in grado di modificare questo atteggiamento indifferente che abbiamo. L'unico modo a nostra disposizione per cambiare questo approccio casuale consiste nel rendere diversa l'architettura. In altri termini, avremo sempre dei muri, e questi sempre si reggeranno, ma se li lasceremo senza una struttura di significati, una cornice, cioè non strutturiamo l'idea potenziale, non li potremo leggere»[9]. Per uscire da questa condizione limitativa che inibisce le possibilità comunicative insite nell'architettura, Eisenman indirizza il proprio meccanismo immaginativo all'interno di un procedimento di autoriflessione e di concettualizzazione. Tale processo, se da un lato corrisponde ad una più generale esigenza di individuazione e rappresentazione dei valori propri dell'architettura, soprattutto, risulta essere espressione della volontà di considerare il progetto come causa anziché effetto. In questo senso nella sua raccolta di scritti, La fine del classico, egli sottolinea la necessità, per l'architettura, di proporsi come raffigurazione di sé stessa. Quello che attiene alla forma, deve essere considerato come ambito destinato all'invenzione piuttosto che strumento pratico, la sua presenza non deve più consistere in una rappresentazione illegittima o priva di ragione, ma risultare, piuttosto, come una "scrittura". L'oggetto architettonico, in questo modo, viene a porsi come "testo" e, come tale, soggetto ad analisi ed interpretazione. L'idea di un'architettura come "scrittura" viene sviluppata da Eisenman per superare quella di architettura come semplice "immagine", puro strumento della "visione"; «il nuovo "oggetto" deve avere la capacità di rivelarsi prima di tutto come testo -cioè come un evento di lettura»[10]. L'ipotesi di stabilire un rapporto di uguaglianza tra progetto e testo, è un'indicazione che Eisenman riprende da Derrida, assumendone, altresì, l'implicita componente ermeneutica. «In questo modo la ricerca dei significati di un'opera», osserva Arie Graafland, «potenzialmente, non ha mai fine, e nuove aggiunte o modificazioni al progetto-testo non fanno che creare nuove interpretazioni. E, proprio come in un testo scritto, a volte si dà la possibilità di una erronea interpretazione. O, come dice Eisenman, c'è un testo che non conduce alla verità o ad una apprezzabile conclusione ma, al contrario, ad una interpretazione sbagliata. E' un processo senza fine»[11]. Un'immagine assai efficace di tale concetto di "interpretazione illimitata" e del suo stretto rapporto con i problemi della visione è contenuta nel brano di una conversazione tra Eisenman e i suoi studenti, in cui egli ricorda una visita, fatta in compagnia di Colin Rowe, alle ville di Palladio: «Egli chiese: 'Cosa vedi?' Era la prima volta che vedevo una villa palladiana e non fui in grado immediatamente di esprimermi, non riuscivo a vedere nulla. Egli continuò a chiedere: 'Avanti, dimmi che cosa vedi'. Più io spiegavo o avevo di che dirgli, più vedevo. E più spiego a me stesso, più vedo. Io credo che il compito della spiegazione sia permettere a noi stessi di vedere di più, di accrescere le capacità di farsi un'esperienza, non di proclamare una verità»[12]. Ma, tale circolarità ermeneutica rivolta all'oggetto architettonico per 'liberare' i significati contenuti in esso -una 'sovrabbondanza' di valori che può apparire come una ulteriore, sottile strategia per indebolire lo 'storico' rapporto tra spazio e funzione- come ci indica Eisenman, può cambiare improvvisamente di segno e rivolgersi all'atto d'origine dell'idea, al suo processo formativo. A questo punto l'attività progettuale viene ad identificarsi con quella critica. E' interessante notare, come nella sua opera esista una profonda differenza tra le ragioni critiche che sostengono i diversi progetti, gli accompanying text e gli scritti teorici. Essi si presentano come una diretta conseguenza dei principi teorici dell'autore. Incapaci di sviluppare descrizioni 'esaurienti', manifestano una sorta di autonomia, una ostentata forma di distacco dai presupposti e dai contenuti dell'opera. Quasi per sottolineare in suo radicale contrasto con la visione funzionalista, l'autore risulta sempre maggiormente interessato a fornire informazioni sull'oggetto in questione e sul contesto culturale o l'ambito geografico a cui esso si relaziona, piuttosto che sulla sua organizzazione spaziale. Una interessante conseguenza dello sviluppo dell'idea di progetto come atto critico è il suo accostamento al concetto di trasgressione. Se, come scrive Philip Roth, il pensiero critico è in sé un atto trasgressivo, allora criticare può voler dire anche trasgredire: come forma di opposizione alle regole, ai principi consolidati, per svelare la debolezza della base su cui sifondano. «La grande architettura», osserva Eisenman, «ha sempre trasgredito ciò che si considerava la norma di quel tempo, il suo Zeitgeist»[13]. Ma, più in particolare, per Eisenman trasgredire vuol dire incidere sulla percezione fisica dello spazio, cercando di individuare una nuova configurazione rispetto alla visione consolidata della sua struttura. «Siamo abituati a fondare l'architettura sulla visione: su un asse (...) monoculare che dovrebbe legare direttamente l'oggetto architettonico al soggetto. Questo schema percettivo deriva da idee che risalgono a cinquecento anni fa, all'invenzione della prospettiva rinascimentale. Da allora gli architetti considerano la vista l'unico modo per esprimere e costruire la relazione tra soggetto e oggetto. Persino Le Corbusier era un architetto visivo: le sue rampe complicavano lo spazio, ma finivano per imporre al soggetto l'esperienza dell'oggetto. Oggi credo sia giunto il tempo di capire che in architettura, come nella vita, la vista è solo una convenzione che utilizziamo per percepire e descrivere la nostra esperienza»[14]. Quello che l'autore intende perseguire è la messa in crisi della nozione generale di spazio cartesiano dove ogni oggetto assume una sua precisa collocazione. Tale tensione a ricercare nuove valenze espressive si rivolgeranno ad un nuovo soggetto, il corpo, chiedendo ad esso di svolgere una sua funzione attiva di intervento, una sua operosa partecipazione a tale azione destabilizzatrice. «Disporre di una critica dei valori plastici in architettura», afferma Eisenman, «assume oggi un'importanza senza precedenti, dacché i mass media ne hanno sottratto la corporeità agli occhi. (...) Noi leggiamo l'architettura somaticamente perché la percepiamo con il corpo appercettivamente. (...) Io vorrei riabilitare il corpo e la mente insieme, non solo il corpo in sé. Quindi, per recuperare il corpo è necessario produrre un'architettura che ci chieda nuovamente l'utilizzo del nostro corpo per capire lo spazio. Ecco ciò che sto cercando di fare nelle mie opere recenti»[15]. Possiamo considerare il 1996 un anno di svolta per la ricerca di Eisenman, soprattutto rispetto allo sviluppo del concetto di 'corporeità', attraverso il quale egli approfondisce l'azione di distacco dalla visione dell'oggetto volta a recuperare la "condizione dell'esperienza" da parte del fruitore. Di questa nuova fase fanno parte alcuni interessanti progetti che ne segnano l'incipit, essi sono: il Memorial for the Victims of the Holocaust, a Vienna, Austria (1996); la Chiesa per l'anno 2000, a Roma, Italia (1996); il BFL Software Headquarters, a Bangalore, India (1996); la Bibliothèque de l'Institut Universitaire de Hautes Études Internationales, a Ginevra, Svizzera (1996-97). Questo nodo della sua riflessione ha, come punto d'origine, l'ispido problema che l'architettura si trova oggi ad affrontare, dovuto alla posizione egemonica assunta dai nuovi media che offrono un flusso di immagini sempre nuove e disponibili al consenso. In questo contesto l'architettura risulta statica, incapace di fornire le adatte risposte alla frenetica spinta al consumo; «viviamo in un presente costante», egli osserva, «in cui tutto è immediato. L'esperienza della bellezza e del sublime ci è negata poiché i media celebrano l'esperienza definitiva della chiarezza immediata: il tempo crolla in un presente infinito»[16]. La velocità che essi imprimono alla realtà del mondo mette in crisi l'architettura in quanto, rispetto ai nuovi media, essa appare come una forma di comunicazione debole. Tuttavia, «negli spazi virtuali è ancora possibile perdersi, un'esperienza che non possiamo più avere nello spazio fisico, reale. Dovremmo imparare a trasferire l'esperienza della perdita dagli spazi virtuali a quelli reali, non copiando la rete ma, creando una sensazione di perdersi nell'architettura»[17]. Bisogna osservare che, seguendo la visione che Bergson sviluppa in Matter and memory, Eisenman tende a considerare la rappresentazione virtuale come la possibilità di prefigurare ciò che non si è ancora concretizzato nella realtà o, sta per esserlo, piuttosto che il contrario di quella reale come è comunemente intesa. E' un modo, questo, di configurare forme nello spazio senza ricorrere all'impiego della materia. Così, la sua ricerca di 'ridefinizione' dello spazio attraverso lo strumento del "diagramma", punta a recuperare delle valenze che tendono ad un significato astratto e concreto a un tempo. Tale diagramma, egli afferma, è un «congegno generativo posto all'interno del processo progettuale ed è anche una forma di rappresentazione. Ma, diversamente dalle tradizionali forme di rappresentazione, il diagramma come generatore rappresenta una mediazione tra l'oggetto concreto, l'edificio reale e quella che può essere chiamata l'architettura dell'interiorità»[18] Tale nucleo tematico che individua il suo punto focale nell'idea di corporeità trova, nella proposta di Eisenman per la Triennale di Milano del 1996 (incentrata sul rapporto tra "Identità e differenze"), un punto di chiarificazione particolarmentesuggestivo. Il progetto che egli presenta si intitola "Delirium" ed è basato su un racconto di Douglas Cooper: il protagonista della storia, l'architetto Ariel Price, ha deciso di uccidere il suo biografo. L'allestimento non è altro che la messa in scena della narrazione che avrà un suo svolgimento all'interno di una cella, la cui forma nasce dall'analisi di un cristallo di sale. La struttura salina, sottoposta ad una forza esterna, metterà in atto un suo sviluppo formativo relazionato al modo in cui riuscirà a reagire ad essa. «Le forme risultanti non rappresentano il processo, ma ne sono piuttosto il risultato e ne portano l'impronta», scrive Eisenman nella breve testo che accompagna il progetto. «Le forme non sono immagini di alcunché, imprimono solo se stesse. In questo senso, le forme danno luogo a un ambiente affettivo, che può soltanto essere rappresentato per mezzo del corpo che si muove attraverso di loro nello spazio»[19]. Tale concetto di affettività sensuale deve essere posto in contrapposizione a quello di effettività che è relativo a quello funzionale. Si tratta di una visione, più volte espressa da Eisenman[20], secondo cui all'origine l'architettura era affettiva; successivamente, sono state le funzioni sociali -che nei due secoli passati, hanno preso forma attraverso una serie di tipologie che vanno da quelle degli ospedali e delle prigioni, a quelle delle abitazioni- a trasformare l'iconografia architettonica in effettiva. In questo modo, essa è venuta a perdere quella affettività che deve essere recuperata e che egli si sforza di restituire nei suoi progetti. «Al tempo stesso, le forme non si intendono più complici dello spazio dell'istallazione», egli prosegue, «non sono più un oggetto inquadrato nello spazio. Al contrario, riconfigurano lo spazio dell'esperienza»[21]. Il risultato, sarà quello di richiamare l'idea di "oggetto-evento" cara a Gilles Deleuze.
«Rassegna di Architettura e Urbanistica» n.97, aprile 1999
------------------------------------------------------------------------ [1] Manfredo Tafuri, Les bijoux indiscrets, in: Five architects N.Y. , Roma 1976, p. 8. [2] Pippo Ciorra, Peter Eisenman. Opere e progetti, Milano 1993, p. 28. [3] Peter Eisenman, An Architectural Design, intervista di Charles Jencks (dicembre 1987), in: Andreas Papadakis, Catherine Cooke, Andrew Benjamin (a cura di), Deconstruction. Omnibus volume, London 1989, p. 141; l'intervista è parzialmente ripubblicata in: Charles Jencks, The New Moderns. From Late to Neo-Modernism, London 1990. [4] Ibidem, p. 209 [5] Giorgio Ciucci, Ennesimeamnesie, in: P. Ciorra, Peter Eisenman, op. cit., p. 8. [6] Ibidem, p. 7 [7] Ivi. [8] Luca Monica, Tito Canella, Intervista con Peter Eisenman, «Zodiac» n. 15, aprile 1996. [9] Ivi. [10] Peter Eisenman, La fine del classico, Venezia 1987, p. 163. [11] Arie Graafland, Architectural bodies, Rotterdam 1996, p. 99. [12] Il passo citato, tratto dal catalogo della mostra "Eisenman Studios at The GSD 1983-85", è riportato in: G. Ciucci, Ennesimeamnesie, op. cit., p. 12. [13] Maurizio Bradaschia, Intervista a Peter Eisenman, «il Progetto» n.1, luglio 1997 [14] David Hunt, Massimiliano Gioni, Blurred vision. Una conversazione con Peter Eisenman, «Flash Art» n. 214, febbraio-marzo 1999. [15] Luca Monica, Tito Canella, Intervista con Peter Eisenman, op. cit.. [16] David Hunt, Massimiliano Gioni, Blurred vision, op. cit.. [17] Ivi. [18] Peter Eisenman, Diagram: An Original Scene of Writing, in: Diagram Diaries, London 1999, p. 27. [19] Peter Eisenman, Delirium, catalogo della XIX Triennale di Milano, Milano 1996, p. 110. [20] Cfr. intervista cit. di Luca Monica, Tito Canella a Eisenman. [21] Peter Eisenman, Delirium, op. cit..