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Parco Leonardo a Fiumicino. Nuove forme di centralita per la periferia
Autore: Michele Costanzo
«Nell'urbanistica ortodossa gli spazi verdi di quartiere sono venerati in modo assolutamente acritico, pressappoco come i selvaggi adorano i loro feticci»(1) .
La feroce critica di Jane Jacobs rivolta, negli anni Sessanta, alla meccanica applicazione dei principi della cultura urbanistica che consentiva il prevalere degli spazi verdi nei quartieri satelliti, come tema caratterizzante il disegno urbano, è un chiaro segno del radicale cambiamento della sensibilità che stava avvenendo nella disciplina urbanistica, e più in generale nella società, rispetto al modo di concepire la città e di relazionarsi ad essa.
In questi ultimi cinquant'anni, oltre ad essere venuta meno l'utopia del rapporto uomo-natura, ovvero la possibilità d'individuare le giuste modalità per una loro reciproca convivenza, è caduto il senso stesso dell'utopia e con essa, come osserva Manfredo Tafuri in Progetto e utopia, la spinta all'impegno dell'architettura, al suo coinvolgimento politico e sociale; e questa dimensione, com'è noto, per lo storico romano, è stata sottratta all'architettura dallo sviluppo capitalistico. «Il dramma dell'architettura oggi», egli afferma, «è quello di vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori sublime inutilità».
Tale condizione di "oggetto trascurabile", assunta dall'architettura attraverso una debole, o insufficiente resistenza, la rende fragile e indifesa di fronte al suo nemico più insidioso, la malattia più grave che è la "consunzione della sua essenza": la possibilità di trasformarsi in oggetto di consumo e, quindi, in merce.
Questo svuotamento del valore e del senso dell'architettura, che alcuni decenni fa era visto da Tafuri come un orizzonte, una linea immaginaria verso cui la disciplina si stava inesorabilmente dirigendo, oggi ha assunto tratti concreti, consolidandosi nel presente, divenendo un dato della realtà con cui ogni progettista deve confrontarsi in ogni occasione/sfida progettuale.
Il caso di Parco Leonardo che sorge nel Comune di Fiumicino è uno degli esempi di questa nuova realtà in cui all'utopia del verde, esecreata dalla Jacobs, è stata sostituito il mito del consumo, in cui lo spazio pubblico inteso come teatro della vita ha cambiato di significato e, come afferma Richard Ingersoll, «è stato trasformato in una fiera delle vanità. [...] Si diffonde la tendenza a trattare tutti gli abitanti di qualsiasi città come turisti» (2).

La concezione di Parco Leonardo, che è quella di realizzare una "città ideale", almeno dal punto di vista del costruttore Leonardo Caltalgirone, che alla nuova città satellite romana ha dato il suo nome (oltre i capitali per realizzarla), nasce nei primi anni Novanta. La sua caratteristica è quella di essere un insediamento abitativo dotato di un forte nucleo aggregativo costituito da un centro commerciale (il più grande d'Italia, come afferma la pubblicità) con negozi, ipermercato, una multisala cinematografica (dotata di 24 sale) e una struttura per il divertimento (con bowlimg, bingo, biliardi, slot machines, disco bar, gelaterie, ristoranti, nursery) con, inoltre, alberghi, uffici, scuole. Tale insieme d'attrezzature mixed-use per il commercio, il tempo libero e l'intrattenimento (dato che nel centro si svolgono periodicamente eventi, manifestazioni, concerti), risulta essere un notevole punto d'attrazione per gli abitanti della città da cui, in un certo senso, tende ad isolarsi per potersi porre come una nuova polarità chiaramente identificabile e con un altrettanto chiaro messaggio che è di tipo commerciale/consumistico, la cui filosofia riflette lo stile di vita derivato dagli insinuanti messaggi messi in circolo dai molteplici strumenti di comunicazione in atto e, particolarmente, da quello assai sollecitante della pubblicità.

L'area su cui sorge Parco Leonardo, si estende su una superficie di 160 ettari lungo l'asse Roma-Fiumicino: un territorio che appartiene alla periferia est della Capitale, destinata a zona industriale dove, a poca distanza, infatti si trova l'uniforme serie di capannoni della nuova Fiera di Roma.
Il complesso, al momento, è completato per circa il 50% rispetto al programma, ed è abitato da circa 7000 persone (più altre 3000 che vi lavorano); è organizzato in modo da controllare autonomamente tutti i problemi organizzative-costruttive-gestional che comprendono le questioni architettonico-urbanistiche, la viabilità, i trasporti, la sicurezza, la tecnologia, e i servizi.
Alla messa in opera di questo insieme di sinergie hanno collaborato diverse aziende intervenendo in diversi campi, che vanno dalla conservazione dell'energia, al riciclaggio dell'acqua e rifiuti, al mantenimento delle aree verdi, alla sicurezza sociale, basata su un circuito di telecamere che sorveglia ogni zona per tutto l'arco della giornata.
Si potrebbe osservare che l'ideologia sottesa da questa "unità urbana" che punta a contrapporre un modello integrato di residenza-lavoro-svago alla crescita incontrollata della città e alla sua congestione, assai stranamente, non fa che riproporre, a livello orizzontale, quello che Raymond Hodd, nel 1931, aveva tentato di realizzare, con successo, all'interno della struttura verticale multifunzionale del grattacielo newyorkese. «Ormai ogni uomo d'affari di città», egli afferma, «deve aver compreso quanto sia vantaggioso poter vivere nello stesso palazzo in cui si trova anche il suo ufficio [...]. Le industrie dovrebbero associarsi a club, hotel, negozi, appartamenti e anche teatri nello sviluppo di progetti integrati. Un simile accordo renderebbe possibili grandi risparmi in termini di tempo e di logoramento del sistema nervoso. Mettete un lavoratore in una struttura integrata, e difficilmente questi dovrà metter piede fuori durante l'arco dell'intera giornata»(3).
La congestione urbana che si sviluppa attraverso movimenti longitudinali nello spazio, nota Rem Koolhaas, in qualche misura può essere evitata, come dimostra il "delirio" newyorkese, con la "città sotto un unico tetto", ossia all'interno della struttura del grattacielo, tramite i movimenti verticali di cui è dotata.

La nuova "unità urbana" romana, invece, è impostata su una piattaforma orizzontale pedonale. Tutto il traffico veicolare si svolge a livello sotterraneo. L'idea a cui s'ispira è quella di un "centro storico" costruito, come recita lo slogan pubblicitario, fuori della grande città; ma il suo centro è facilmente raggiungibile tramite ferrovia metropolitana.
Il disegno urbano del complesso è concepito attorno ad uno spazio composto di tre grandi piazze ellittiche, compenetrate una nell'altra a formare un'unica zona pedonale. Tale sistema di spazi è denominato Piazza Buonarroti. La sua pavimentazione, sempre attingendo dall'informazione pubblicitaria, è composta di "mattoncini messi a mano uno per uno" con disegni diversi, introducendo con questo una sorta di contraddittoria oscillazione tra un modernismo tecnologico, e una populista, conservatrice reazione ad esso: quasi una presa d'atto che gli italiani non riescano ad abituarsi fino in fondo a ciò che la modernità impone loro.
Il Palazzo dei Divertimenti ha dei portici alti 16 metri, e la Multisala è un enorme cubo d'acciaio; infine, il Centro commerciale ha pavimenti in mosaico i cui disegni hanno per soggetto ora disegni di fantasia, ora antiche strutture romane.

La città, scrive Paul Virilio, «[...] è sempre meno topica e territoriale e sempre più teletopica e profondamente extraterritoriale, in cui le nozioni geometriche di centro e di periferia perderanno a poco a poco il loro significato» (4). E, in questo senso, aggiunge Koolhaas, il mondo contemporaneo a tal punto risulta essere impossibilitato ad esercitare un serio controllo dei piani, a seguito della forte pressione degli interessi delle multinazionali del consumismo, nonché della determinante azione dei mercati, che le forze dell'urbanizzazione possono essere rappresentate come un'enorme onda sulla quale gli architetti non possono che fare il surf.
Tutto l'insieme architettonico-spaziale della realtà di Parco Leonardo è giocato sull'ambiguità, del messaggio che viene trasmesso: tutto giocato tra modernità, efficienza, confort, e memoria del passato (nel senso storico e culturale) per via della stretta vicinanza con Roma, che porta alla celebrazione di una sorta di "fenomenologia dell'inautentico".
«Una splendida espressione che si coltivava con fervore ai tempi della civiltà», scrive Alessandro Baricco, «era: l'autentico. Spesso lo mettevamo in connessione strettissima con un altro termine che ci era caro: l'origine. Avevamo questa idea che in profondità, all'origine delle cose e dei gesti, dimorasse il luogo aurorale del loro affacciarsi alla creazione: lì, dove essi iniziavano, si poteva scorgere il loro profilo autentico. Lo immaginavano, ovviamente, alto e nobile: e si misurava la tensione morale di un gesto o di un'idea o di un comportamento proprio misurando la sua prossimità all'autenticità originaria. Era un modo di impostare le cose, piuttosto fragile, ma era chiaro e felicemente normativo. Faceva intravedere una regola: ed era una regola bella. Esteticamente apprezzabile, e dunque, in qualche modo, fondata»(5). Ora, proprio ciò che tendono a polverizzare i nuovi "barbari", egli afferma, sono le nozioni di autentico e di origine.
Ma, più avanti osserva, in effetti «[...] non c'è civiltà da una parte e barbari dall'altra: c'è solo l'orlo della mutazione che avanza, e corre dentro di noi. Siamo mutanti, tutti, alcuni più evoluti, altri meno, c'è chi è un po' in ritardo, c'è chi non si è accorto di niente, chi fa tutto per istinto e chi è consapevole, chi fa finta di non capire e chi non capirà mai, chi punta i piedi e chi corre all'impazzata avanti. Ma eccoci lì, tutti quanti, a migrare verso l'acqua. [...] in mezzo al guado, con la mente di qua e il cuore di là, mezzi mammiferi mezzi pesci, strappati in due da una mutazione arrivata troppo tardi o troppopresto: piccolo penosi monsieur Bertin sul
surf»(6) .

1)Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, Totino 1969, p. 82.
2)Richard Ingersoll, Sprawltown, Meltemi Roma 2004.
3)Cfr. Rem Koolhaas, Delirius New York, Electa, Milano 2001, p. 163.
4)Paul Virilio, La freccia del tempo, «Domus Dossier» n. 4, giugno 1996.
5)Alessandro Baricco, I Barbari, L'Espresso, Roma 2006, p. 201
6)Ibidem, p. 233-234.

In: AA.VV, La civiltà dei superluoghi, Damiani editore, Bologna 2007.