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Richard Meier. Volumi sotto la luce.
Autore: Michele Costanzo
“In una splendida giornata di maggio dell’anno 1868 un signore se ne stava disteso a proprio agio sul grande divano circolare che a quel tempo occupava il centro del Salon Carré, al Museo del Louvre”. Il protagonista della storia, “con la testa appoggiata allo schienale e le gambe distese in avanti, stava ammirando la bellissima «Immacolata Concezione» del Murillo (...). Si era tolto il cappello e aveva gettato accanto a sè, sul divano, una guida tascabile di color rosso ed un binocolo da teatro”(1).
Il distinto signore aveva attentamente guardato “tutti i quadri che in quelle terribili pagine a fitte righe di stampa del suo Baedecker erano segnalati con un asterisco”(2). Ma quello che aveva colpito la sua attenzione soprattutto era il notevole numero di copie che, a fini divulgativi, venivano eseguite da alcune giovani donne. Così, quasi raccogliendo in sè tutte le forze, si alzò di scatto e, dopo aver sostato per qualche tempo dinanzi al quadro di una delle ragazze che era stata a lungo oggetto della sua attenzione, con il suo stentato francese le chiese, «Combien ?».
Da questo incontro prende l’avvio il romanzo The American, in cui Henry James, ha modo di sviluppare il motivo euro-americano, assai ricorrente nella sua narrativa, dove prende in esame, secondo angolazioni diverse, gli infiniti esiti dell’eterna domanda: “chi è il seduttore e chi è il sedotto?”.
In questo interrogativo sembra condensarsi il segno di una lunga crisi della cultura americana, motivata nel profondo dall’imprescindibile bisogno di definire la propria identità.
Un primo tratto, apparentemente contraddittorio, si manifesta in un generico, indefinibile desiderio di fuga dalla propria realtà che, specularmente, corrisponde ad un senso pervasivo di nostalgia nei confronti dell’Europa.
Ma quello che rende il romanzo di James più direttamente attinente al tema che intendiamo trattare sono alcuni elementi che appartengono al suo impianto narrativo. Il protagonista è un americano (dal significativo nome Christopher Newman), attratto dalla bellezza delle città europee. Si reca a Parigi, capitale internazionale dell’arte, luogo di elaborazione e di sviluppo di ogni teorizzazione estetica. Va in visita al Louvre, il museo per eccellenza, il tempio più rappresentativo della sacralità della cultura del Vecchio Mondo. Nel percorso che egli compie all’interno dell’edificio, ha modo di incontrare dei giovani pittori che producono repliche dei capolavori esposti.
Qui la concezione materialistica del protagonista trova la sua manifestazione più lampante nella volontà di possesso di quelle copie (“se dobbiamo dire la verità”, scrive argutamente James, “egli aveva ammirato spesso la copia assai più dell’originale”) (3) e attraverso di esse il desiderio di possesso con cui egli si accosta alla civiltà europea.
Nell’incipit di questo racconto vengono curiosamente ad incrociarsi un insieme di tematiche, che potrebbero essere facilmente ricondotte al complesso rap-porto tra l’americano Richard Meier e l’Europa.
Ma se nei primi anni della sua attività progettuale si era potuta considerare la sua ricerca quale diretto sviluppo di esperienze degli anni tra le due guerre, la nutrita serie di progetti redatti per importanti centri europei (4) -soprattutto a partire dagli anni Ottanta- e l’influenza esercitata dall’insieme della sua opera nei confronti della cultura architettonica del Vecchio Continente, andranno a stravolgere così profondamente l’annoso interrogativo del “chi è il sedutore e chi è il sedotto?”, da creare una circolarità conchiusa che svuoterà di senso ogni ten-tativo ulteriore volto ad individuare quella rigida linearità del processo formativo del suo linguaggio che la critica ha fino ad ora, in larga massima, accreditato.
In effetti la cultura architettonica, come ogni altra espressione umana, vive ormai in una dimensione ‘aperta’ dove, nella libera circolazione delle idee, non esistono più confini, nè preclusioni di sorta, nè aree di appartenenza. “Viviamo in un mondo in cui le comunicazioni sono rapide”, afferma Meier, “Quello che og-gi succede nel campo delle belle arti, del design, della letteratura e della musica, è conosciuto in pochissimo tempo in ogni angolo della terra. La nostra società è internazionale. L’architettura è internazionale”(5).
Ma a partire da questa visione, dalla fine degli anni Sessanta, è stato possibile sviluppare una ricerca volta all’individuazione di una espressività che, pur utilizzando gli elementi caratteristici del così detto “linguaggio internazionale”, fosse nel contempo rappresentazione di valori locali, specifici di un caratteristico contesto.
Si tratta di un intenso sovrapporsi di aree linguistiche, un complesso equilibrio di espressioni dotte e gergali, come appunto avviene nella prima fase dell’opera di Meier.
Ad una domanda, posta da Barbaralee Diamonstein, riguardo a ciò che egli considera particolarmente americano del suo lavoro egli afferma: ”Quando ho iniziato a progettare le prime case, come la Smith House a Darien nel Connecticut, pensavo di realizzare una versione contemporanea della casa del New England, rivestita in legno dipinto di bianco e realizzata secondo la tradizione in baloon frame. Lo spirito e la dimensione degli spazi sono simili alle prime case del New England. Sono rimasto abbastanza sorpreso dal fatto che, fino a quando gli architetti europei non sono venuti in America, non è stata riscontrata la somiglianza con le case del New England, come pure -ma solo nello spirito- con alcune case di Breuer e di Gropius dei primi anni Cinquanta. (...) Credo che in termini di dimensione degli spazi, di sistema costruttivo, di criterio dislocativo, le mie prime case seguano la tradizione del New England, della casa unifamiliare isolata, collocata nel suo ambiente e dipinta di bianco”(6).
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Meier compie gli studi presso la Cornell University. In quegli anni nel campus di Ithaca, si viveva un particolare momento culturale volto ad istituire proficui rapporti tra architettura e arti figurative, in un clima di estrema libertà; “Cornell ha in sé degli aspetti molto particolari”, ricorda Meier, ”Libera, aperta e senza alcun tipo di tendenza dominante. Credo che uno dei suoi aspetti positivi sia stato quello di aver lasciato ampia libertà agli studenti e allo sviluppo dei loro interessi, offrendo in questo molteplici opportunità di apprendimento” (7).
Conseguita la laurea in architettura Meier decide di fare un lungo viaggio di studio in Europa. Visita paesi come: la Grecia e l’isola di Creta, l’Italia, la Francia (dove ha la possibilità di incontrare Le Corbusier durante la cerimonia di inaugurazione della Maison du Brazil), la Spagna, l’Olanda, la Germania, l’Inghilterra, la Finlandia (ove, senza successo, tenta di conoscere Aalto).
Alla fine del suo Gran Tour, tornato a New York, in attesa di entrare presso lo studio di Breuer, presso cui rimarrà per tre anni, va a lavorare per sei mesi in quello di Skidmore, Owings & Merrill.
L’eperienza con Breuer sarà estremamente formativa, per l’alto livello qualitativo della progettazione dello studio e per la particolare attenzione nella cura del dettaglio. “Ancor più affascinante era la sua attenzione a come i materiali potessero essere accostati. Sapeva intuitivamente come far giocare un materiale con l’altro al fine di creare un insieme architettonico integrato” (8). Uno dei meriti che debbono essere ascritti al fondamentale ruolo dell’architetto tedesco nel contesto della cultura statunitense, scrive Meier, è quello di aver avuto la capacità di trovare il punto di equilibrio “tra il tipo di rapporto di scala europeo e contemporaneamente la tecnologia americana” (9).
In questo periodo, durante il tempo libero, continua ad svolgere la sua ‘attivita parallela’ di pittore, una passione che aveva maturato fin dagli anni della Cornell.
Attraverso Stephen Green, presso il quale studia pittura, conosce Frank Stella che diventerà ben presto un suo fraterno amico.
Stella lo ospita presso il suo studio dove pure vanno a dipingere altri amici. “Quando Frank Stella mi consentì di lavorare nel suo studio, estese lo stesso invito a Carl Andre e Hollis Frampton, il fotografo (...). Era il genere di luogo dove andava e veniva una quantità di gente” (10).
Nel 1963 apre uno suo studio nella decima strada.
Con Stella nello stesso anno parteciperà ad un concorso per una fontana a Philadelphia.
“Quando smisi di dipingere presso quello studio e mi sistemai per mio conto”, ricorda Meier, “ero molto legato ad Alan Solomon, allora direttore del Jewish Museum. Ho lavorato con lui in occasioni delle mostre di Jasper Johns e di Robert Rauschemberg” (11).
A seguito di questa esperienza Meier riceve l’incarico dell’allestimento per la mostra intitolata “Recent American Synagogue” presso il Jewish Museum di New York (1963). “E’ stato allora che ho incontrato Barnet Newman. Qualcuno mi aveva detto che aveva progettato una sinagoga ed io lo incontrai per questa ragione. Alla fine Barnet mi mostrò gli schizzi che aveva fatto per la sinagoga, ma quello che realmente voleva era fare un plastico per questa mostra. Così Bob Murray, lo scultore(...) lavorava al plastico e io osservavo con interesse quello che stava facendo. Questo, alla fine degli anni Sessanta, ha portato a un mio coinvolgimento con un certo numero di artisti ”(12).
L’interesse per le arti figurative e la sua stretta frequentazione dell’ambiente culturale newyorkese, oltre ad indirizzare la sua ricerca progettuale secondo un percorso che si rivelerà negli anni successivi estremamente originale e ricco di interessi, lo porteranno a realizzare in questo periodo una serie di progetti attinenti in quache modo il mondo dell’arte e degli artisti.
Realizza, infatti, nel 1965 l’appartamento-studio di Stella, ricavato all’interno di un loft e nello stesso anno insieme a John Hejduk e al pittore Robert Slutzky, partecipa al concorso per l’University Art Center di Berkeley.
Nel 1966 attua una seconda trasformazione di un loft in appartamento, questa volta per William Rubin responsabile del settore delle arti figurative del MOMA.
Nel 1967 infine riceve l’incarico dalla Bell Telephone per il Westbeth Artist’ Housing (1970). Qui, il profondo coinvolgimento vissuto in questi anni, attraverso le molteplici manifestazioni dell’arte contemporanea, ha modo di esprimersi in un’ideale sintesi. Si tratta della trasformazione di un vecchio complesso industriale a residenza per artisti (musicisti, ballerini, pittori, scultori, fotografi): quattro edifici a sud della quattordicesima strada, nella zona est del Greenwich Village. “Era la prima esperienza di quello che allora veniva comunemente chiamato renovation ed ora adaptative reuse.. Malgrado ciò, per me non era architettura, perchè si lavorava con una serie di limitazioni date dai vincoli insiti in un edificio esistente. Alcune delle esperienze concernenti le prime case sono state molto più librere e più gratificanti e i musei più recenti, sotto molti aspetti, hanno costituito per me una vera sfida ”(13).
L’intervento è assai particolare e significafivo in quanto riesce ad offrire ai residenti -attraverso la trasformazione dell’edificio in una notevole serie di loft (circa quattrocento)- adeguati spazi per la vita quotidiana e il lavoro, insieme ad altrettanti ambienti volti alla comunicazione, allo scambio, anche rivolto all’esterno, delle diverse esperienze elaborate nei loro studi.
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Parallelamente, durante questi anni, Meier si trova ad insegnare alla Princeton University e poi alla Cooper Union.
A partire dal 1964, sotto l’egida della CASE (Conference of Architects for the Study of Environment) a Princeton si era formato un gruppo composto da giovani docenti provenienti da varie sedi univesitarie. Ha inizio, in questo modo, la fase che porterà alla formazione del gruppo dei Five Architects.
La finalità di tale iniziativa era quella di incontrarsi per discutere sulle questioni generali dell’architettura, cercando di mantenere un punto di contatto con le problematiche dell’insegnamento. Ma l’intento in verità era assai più ambizioso in quanto si cercava di individuare la strada che portasse a un radicale rinnovamento del linguaggio dell’architettura: “l’intenzione, in quegli anni, era quella di creare qualcosa che nel nostro paese non era mai esistita”(14). Punto di riferimento, fondamentale, ricorda Meier, era l’esperienza dei CIAM -con particolare attenzione a quella profonda discussione avvenuta a Otterlo nel 1959- entrati ormai nella loro fase critica.
Gli incontri, aperti anche a membri esterni invitati di volta in volta, proseguono fino al 1969. In quelle occasioni vengono presentati progetti o riflessioni critiche attinenti a specifiche questioni.
Nel 1970 il gruppo sente la necessità di darsi una struttura, ciascun partecipante presenta allora un proprio progetto recentemente realizzato o in via di realizzazione. Viene anche oganizzata una commissione giudicatrice costituita da esperti, con l’idea di fare il punto sul lavoro sino ad allora prodotto.
“Così nell’autunno del 1971”, riferisce Meier, “il Museum of Modern Art fu così gentile da metterci a disposizione la sala delle riunioni all’ultimo piano. Io presentai il progetto della Smith House, che avevo terminato da poco; Michael Graves presentò una casa su cui stava lavorando; Peter Eisenman propose l’ampliamento di una casa a Princeton. John Hejduk alcuni disegni e Richard Henderson la casa che aveva progettato con Charles Gwathmey per i genitori di Charles. Abbiamo avuto una discussione molto interessante, molto aperta e animata. Dopo il dibattito qualcuno disse che avremmo dovuto pubblicare un piccolo fascicolo”(15).
In effetti trascorrerà molto tempo prima che la pubblicazione sia portata a termine. Alla fine, nel 1972, con l’aggiunta di nuovi materiali, l’introduzione di Artur Drexler e i fondamentali saggi di Kenneth Frampton, Colin Rowe, il libro sui Five Architects è ultimato ricevendo immediatamente un vasto consenso che polarizza l’attenzione internazionale attorno alle figure dei suoi cinque protagonisti.
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A partire da tale importante pubblicazione, gli effetti del contraccolpo derivato dalla comparsa del giovane gruppo newyorkese sulla scena internazionale e gli aspetti di novità della loro ricerca, sono stati oggetto di numerose e approfondite riflessioni.
Tafuri, che per primo se ne è occupato in Italia, ha veduto nella loro opera, un sistematico rifiuto rivolto a tutto quello che andava connotando, in quegli anni, i caratteri dell’architettura americana: i prodotti “delle grandi corporations”, il “misticismo della scuola kahniana”, l’ “eclettico manierismo” di Rudolph e Pei, l’ “artificioso vitalismo dei giovani californiani, le “rarefatte reminiscene di Philip Johnson, le “esasperazioni venturiane”, le “commercializzazioni della ricerca tipologica” dei Portman e dei Roche e infine, i “vari «survivals» germo- glianti negli Stati Uniti” (16).
Tuttavia, ripercorrendo a ritroso la cospicua produzione di scritti critici che hanno preso in esame il fenomeno dei Five, si può notare quanto, quella la visione tafuriana condensata nell’espressione “poetica della nostalgia”(17), abbia generato, soprattutto in Italia, una sorta di ipoteca critica che ha condizionato gran parte dei contributi che sono susseguiti.
In questo senso ci sembra assai più indicativo quel passo di Kenneth Frampton in cui afferma: “I Five Architects giunsero ad una prima maturazione nel segno di un purismo riabilitato e la loro disponibilità nei riguardi dello spartano edonismo estetico di Le Corbusier fu limitata fin dall’inizio e, in alcuni casi, addirittura inesistente. L’apparente legame con lo spazio postcorbusiano fu in realtà un espediente per dare fondamento critico a ciò che in realtà li interessava, la creazione cioè di sistemi formali fortemente astratti e al tempo stesso lirici” (18).
Si è sottovalutata l’importanza delle radici culturali del gruppo, quelle pro-fonde connessioni con i multiformi aspetti della cultura newyorkese, da quello letterario, a quello musicale, fino a quello delle arti figurative, più direttamente congiunte al loro campo espressivo. In questo modo non è stata sufficientemente considerata la complessità del loro messaggio, la capacità di testimoniare, at-traverso la loro intensa e originale interpretazione, le più recenti vicende della cultura statunitense che caratterizzano la produzione della costa attlantica.
Per Meier gli anni Sessanta costituiscono il periodo più fecondo, in cui riesce a definire con magistrale chiarezza, l’essenza poetica della sua ricerca, unita alla folgorante precisione nell’individuazione dell’apparato formale atto a definirla.
Sono anni in cui la giovane generazione americana, pur vivendo una condizione di estremo disagio intellettuale, trova la capacità di uscire da quella sorta di “cultura dell’esaurimento” -mutuando il termine dal titolo di un famoso scritto di John Barth (The Literature of Exaustion)- che procedeva all’insegna del post e del beyond. Presa consapevolezza “dell’usura di certe forme”, dell’ ”esauri-mento di certe possibilità”, sembrava infatti che si stesse profilando inesorabilmente all’orizzonte The End of the Road, come nel 1958 Barth intitila un suo romanzo.
Proprio negli stessi anni sarà un gruppo di giovani artisti che lavora a New York, quali Stella, Ryman e Martin, che tendono “a regolarizzare l’energia della pittura americana in un ordine procedurale e visuale, più freddo e concreto”(19), insieme ad altri quali Flavin, Andre, Judd e Morris che in quegli anni si affacciano alla scena dell’arte americana, ad operare una svolta fondamentale.
Nel loro nuovo percorso essi riescono a rompere una volta per tutte quel rapporto di scambio, quella volontà di rispecchiamento, quella reicerca di fecondazione attraverso la cultura europea, che aveva caratterizzato la cultura americana fino ad allora.
Con essi nasce un primo autentico prodotto di una cultura artistica autoctona, portatrice di autovalori, assolutamente orignali e indipendenti.
L’aspetto rilevante della loro proposta risiede nel rovesciamento dei termini che fino ad allora avevano caratterizzato il rapporto tra l’artista ed il suo referente ideale, vale a dire il mondo fisico in cui è immerso, o quello tutto mentale, del suo universo fantastico; l’attenzione dell’artista si sposta così dal piano dell’intenzionalità a quello della fattualità, trovando idonei sbocchi espressivi nella ricerca del ‘concreto’, del ‘banale’, del ‘quotidiano’.
L’intento è quello di liberare “l’operazione manuale e teorica”, come scrive Germano Celant, ”dalle ridondanze esistenziali storiche” e dall’assunzione del “peso concreto dell’artefatto, per rendere entrambi, artefice ed artefatto, autosignificanti senza alcuna contaminazione reciproca”. Quello che essi propongono è la netta separazione tra “signifcato fattuale, significato teorico e significato emo-tivo”(20). La loro focalizzazione determina il grado zero e l’apriori dell’arte.
In Stella, uno dei massimi rappresentanti di questo gruppo, Celant vede nella “superficie/supporto una struttura in rapporto osmotico con la decorazione, quindi un’entità autodeterminantesi insieme al processo pittorico”. Nei suoi dipinti, infatti, a partire dai black paintings (1958), “si fonda sulla sua predilezione per una superficie impregnata di un’intensità visuale, prodotta da elementi -quali le bande o strisce di colore- regolari e omogenei” (21).
E’ chiaro che nella ricerca estetica di tutti questi artisti, l’aspetto dominante è rappresentato dall’intenso processo di intellettualizzazione del loro lavoro creativo. Tale processo operativo prende forma a partire dal primo momento decisionale e organizzativo dello sviluppo del loro lavoro.
L’attenzione esercitata da questi artisti nei confronti della linguistica, dell’antropologia sociale, della psicologia, è una delle ragioni da cui prende origine la così detta “messa in crisi della mitologia dell’autore”. Per essi, è compito dell’opera trovare in sé stessa il proprio grado di autonomia, al di là del rapporto con l’autore o nonostante l’autore.
L’artista, distogliendo la propria attenzione da quello che costituisce l’oggetto della propria esperienza comune, si trova ad imitare i processi dell’arte. E questo si traduce nell’ ”imitazione dell'imitare”(22).
Raggiunto questo distacco mentale dall’opera da parte dell’artista, il fare arte, il produrre materiali estetici, sembra consistere, quasi escluclusivamente, nella cura per l’invenzione e la sistemazione di spazi e superfici, forme e colori, nell’eliminazione, in definitiva, di tutto ciò che non è necessariamente implicato in questi ambiti.
A partire da questo grado di astrazione raggiunto essi possono riesaminare o ripercorrere con spirito completamente nuovo alcuni nodi fondamentali della ricerca estetica che li hanno preceduti.
C’è una frase, coniata da Greenberg, che icasticamente restituisce l’immagine del modo con cui, i pittori della New York School, hanno guardato alle esperienze delle avanguardie storiche, utilizandone i materiali formali: “acchiappare (...) le lepri che Picasso aveva fatto uscire allo scoperto e non aveva preso” (23).
Meier, torna all’architettura purista, col chiaro intento di cercare altro e questo avviene -volutamente eccedendo nei termini dell’espressione- mediante il recupero: del linearismo, della trasparenza, della mancanza di peso, della proposizione della superficie come semplice involucro e della definizione di uno spazio che deve essere formato, diviso, contenuto, racchiuso.
Quello che emerge come esigenza primaria, è l’affermazione della visione; concepita come termine assoluto di confronto per ogni atto progettuale. Essa trova una diretta traduzione nella rappresentazione della libertà di movimento, all’interno della spazialità dell’organismo. Il desiderio di purezza tende ad esaltare l’idea di visibilità a detrimento dei valori tattili, materici e di tutto quanto ad essi viene associato quali: peso e impermeabilità visiva.
Raggiunta alla fine, attraverso la logica interna a questo processo, la raffigurazione dell’incorporeità della materia, l’oggetto architettonico non può che essere considerato solo dal punto di vista ottico, come puro miraggio.
Per attuare tale processo di smaterializzazione, Meier opera sulla superficie parietale dell’edificio, regolando l’intensità del gioco delle luci e delle ombre, analizzando le peculiarità del contesto e degli elementi, in esso compresenti, che esercitano determinate influenze. “Io lavoro con la superfice e il volume, manipolo le forme nella luce, i passaggi di scala e la visone, il movimento e la stasi. Il mio principio di ordinamento ha a che fare per prima cosa con la purezza”(24)
Il rigoroso processo di astrazione che subisce l’immagine architettonica, è uno degli aspetti fondamentali che sostanziano il suo lavoro. “Credo che solo attraverso l’astrazione si possa arrivare a scoprire un più profondo e specifico messaggio proveniente dall’oggetto. Non credo che sia necessario affidarsi ai simboli per trasmettere dei significati. Piuttosto, è attraverso l’astrazione che diventa possibile scoprire un significato personale per ogni osservatore, non solo quello individuale dell’artista” (25).
Egli, infatti, con estremo rigore e determinazione, persegue una sistematica opera di distacco dell’immagine architettonica dall’ idea di matericità in essa implicitamente incorporata, riuscendo a comunicare, attraverso tale manipolazione della figura, la dimensione di un’alta intensità espressiva.
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In occasione della mostra al MOMA, Meier presenta Casa Smith a Darien (1965-67) poi, quando verrà pubblicato il volume, includerà anche Casa Saltzman a East Hampton (1967-69).
Casa Smith può considerarsi il primo felice esempio di una lunga sequenza di progetti -elaborati tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta- riguardanti il tema della residenza privata, che in seguito si estenderà a quelli a carattere sociale, come il complesso di Twin Parks Northeast Housing (1969-74) e il Bronx Developmental Center (1970-77), da cui, peraltro, riceverà vasta notorietà e consenso, oltre ad un sollecito interesse da parte delle riviste di settore.
Ma saranno soprattutto le prime ville a costituire un importante banco di prova nella definizione del suo linguaggio. “All’inizio la progettazione di una serie di case private mi ha fornito l’eccellente opportunità di sviluppare le mie idee sull’architettura. Attraverso queste, ho trovato e messo alla prova un mio vocabolario e una griglia di valori” (26).
In quella fase del suo lavoro egli avrà l’oportunità di sviluppare e definire la sua idea di achitettura, individuando un codice di valori che esprimerà attraverso un appropriato linguaggio formale arricchito dall’intensa sperimentazione degli anni successivi: “I concetti di gerarchia, di differenza tra gli spazi pubblici e quelli privati e di sequenza spaziale, entrano sempre in gioco”, egli afferma, “L’architettura ci contiene, come pure definisce lo spazio all’interno del quale ci muoviamo, esistiamo e utiliziamo. L’architettura celebra lo spirito; mostra la sruttura della mente; organizza e dà forma alla psiche umana. Questo avviene attraverso variazioni di scala e di visione, di movimento e di stasi, di spazio e di luce. Quindi il mio concetto di edificio ideale, si sviluppa attraverso l’articolazione di diversi valori. Ciò che mi interessa è lo spazio, il cui ordine e la cui definizione sono in relazione con la luce e la scala umana” (27).
Uno dei principi fondamentali su cui si organizza lo svolgersi del suo pensiero progettuale è la tensione ad un’idea di purezza.
Una prima considerazione che può contribuire a definire il senso e la complessità di tale concetto, è la distinzione e, contemporaneamente la chiara relazione, che egli istituisce tra due termini: il naturale e l’artificiale. “Vedo l’intervento dell’uomo come l’organizzazione estetica dell’ambiente”, afferma Meier, “Cerco di stabilire un sistema coerente di valori reciprocamente dipendenti, un rapporto armonioso delle parti. Alludo alla soluzione di ogni problema relazionale tra forma, funzione e appropriatezza. Soprattutto, deve venirsi a determinare un reciproco rapporto tra l’idea di un edificio e la sua manifestazione fisica”(28).
Il rapporto tra esternità ed internità, come vedremo, pur trovando nel suo vasto panorama progettuale esiti differenziati, risponderà ai medesimi assunti.
Nell’universo mentale entro cui si organizzano gli elementi del suo linguaggio progettuale, un ruolo preminente è assunto dal sistema di circolazione (“l’idea di passeggiata architettonica,(...) è stata una costante del mio lavoro”) (29): il percorso architettonico che organizza i movimenti nello spazio.
Tale itinerario nel suo svolgersi, all’interno e all’esterno dell’edificio, è impostato secondo quella duplice funzione, che lo vede a un tempo struttura volta ad assolvere specifiche funzioni progettuali e tramite ideale di comunicazione tra i termini generali, sopra descritti, dell’atificiale e del naturale.
La serrata e ripetitiva ortogonalità dell’impianto compositivo dei progetti dei primi anni, tesa ad ottenere un ordinato rapporto tra le parti e una ferma organizzazione dello spazio, viene maturata progressivamente attraverso un’intenso processo di sperimentazione e affinamento delle modalità espressive.
L’esempio più significativo di superamento di quell’eccesso di rigidità, nel-l’impiego del reticolo geometrico, dopo l’esperienza della Hoffman House ad East Hampton (1966-67) (30), è costituito dal progetto per l’Atheneum a New Harmony, che rappresenta l’edificio pubblico che più direttamente si lega all’esperienza delle ville.
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“Questa struttura bianca e brillante”, scrive Ada Louise Huxtable a proposito dell’Atheneum (1975-1979), “è un’aggiunta radicale nell’entroterra rurale americano, come Villa Savoie di Le Corbusier lo è stata per la campagna francese di Poissy mezzo secolo fa” (31).
L’immediatezza dell’accostamento tra casa individuale e museo deriva dal fatto che, come ha osservato Hubert Damisch, in un certo senso anche il museo corrisponde “alla dimensione della vita collettiva”(32).
In tale progetto, maggiormente che in altre opere meieriane, l’ideale trapasso, dalla casa all’edificio pubblico, si manifesta quasi in una continuità logica.
Questo avviene per la caratteristica conformazione spaziale dell’organismo, che lascia trasparire in modo evidente il suo referente primario, e per il significato simbolico che viene a costituire per la comunità di New Harmony: l’immagine della grande casa.
In questo contesto, dunque, esso rappresenta il luogo del ricordo, la casa in cui vive Mnemosine, la madre delle Muse: ambito destinato alla conoscenza e alla riflessione. Museo, dunque, come spazio della rammemorazione e della comunicazione, ambiente destinato alla conservazione e alla custodia delle testimonianze dell’origine, in cui ciascuno possa liberamente scoprire e riconformare i tratti della propria identità.
L’Atheneum può considerarsi come uno spazio multimediale, centro di informazioni, di orientamento e di ‘iniziazione’ per i visitatori esterni, ed organismo in cui si svolgono le attività culturali dei residenti.
L’edificio sorge lungo un’ansa del Wabash River, sopra un ampio rialzo del terreno, creato artificialmente, per proteggerlo dalle possibili inondazioni (33). Occupa un’area periferica del piccolo centro agricolo, ma risulta perfettamente inserito nel reticolo delle strade che disegna l’area centrale.
L’impianto della costruzione risponde alla trama del tracciato ortogonale del paese, ma asseconda anche l’andamento sinuoso del fiume a cui si accosta; tale la seconda direzionalità ha uno scarto di 5 gradi rispetto alla prima. In questo modo il progetto procede secondo due diversi orientamenti che corrispondono rispettivamente all’intersezione di due sistemi: il primo è quello che fa capo al volume centrale a base quadrata (che contiene ai vari livelli il teatro e le gallerie, e la rampa di collegamento), a cui si addossa un’insieme di figure variamente formate (a più piani, collegati da scale); il secondo è quello della rampa esterna, che irrompe nell’aggregato volumetrico, seguendo la direzionalità di provenienza dal fiume, sconvolgendone il precedente ordine; “si sale attraverso lo spazio centrale”, afferma Meier, “e guardando fuori si vede il fiume e il punto da cui, un tempo, si entrava in città. Negli anni intorno al 1850, la gente giungeva a New Harmony in barca lungo il Wabash River. Procedendo al suo interno e salendo verso l’alto, facendo un giro attraverso i tetti, attraversando il teatro e poi tornando giù attraverso le scale e la rampa, l’edificio sembra voler spingere verso la zona retrostante in direzione della città” (34).
La rampa, elemento caratteristico del progetto, genera lo shift, nota Henri Ciriani, la rotazione del piano “per ottenere la massima vibrazione spaziale”(35), come risulta chiaramente percepibile leggendo la pianta.
Tale elaborato, unitamente alla sezione, rappresentano per Meier, il punto di riferimento primario del processo progettuale e contemporaneamente, il momento di paretenza e di arrivo di ogni itinerario mentale. “L’immagine bidimensionale”, egli afferma, “contiene al suo interno le istruzioni per l’oggetto tridimensionale quale è l’edificio. Insiemle alla sezione essa genera l’edificio. Mentre il prospetto tende a rendere l’immagine dell’oggetto, la pianta e la sezione suggeriscono all’architetto dell’idea spaziale” (36).
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Il tema museale è certamente quello in cui l’architetto americano si sente, maggiormente coinvolto sia dal punto di vista mentale che emozionale. “I musei mi attraggono”, afferma Meier, ”perchè mi sono occupato di arte per tutta la vita e quindi dell’arte dell’architettura. Come l’arte sia legata all’architettura è una casa che mi ha sempre profondamente attratto.
Ma è ancora più importante il fatto che un museo sia forse il più importante edificio pubblico atto a comunicare al visitatore l’arte e l’esperienza dell’arte. Come ottenere questo, lungo una passeggiata architettonica, come il visitatore comprenda un edificio attraversandone gli ambienti, come viva l’arte esibita in modo diverso di volta in volta, questa è una grande sfida. Allo stesso tempo, bisogna aiutare il visitatore ad orientarsi attraverso la vista dell’esterno” (37).
Il progetto per Villa Strozzi a Firenze (1973), anche se non verrà realizzato, costituisce il primo serio impegno, nell’ambito della tematica museale, che affronta nella sua lunga e fortunata carriera.
In questa esperienza sono compresenti due questioni, che ritroveremo attentamente analizzate nel corso delle diverse fasi della sua opera, sotto varia forma e condizione: il valore del recupero della preesistenza (o il confronto con essa) e la querstione dell’integrazione tra antico e nuovo.
In ogni museo tali tematiche -percorrendo ogni fase ideativa un loro specifico svolgimento, a partire dall’interpretazione del luogo- alla fine del processo trovano un rispecchiamento in ogni singolo elemento del progetto stesso.
Il complesso della ottocentesca villa disegnata da Giuseppe Poggi, è composto da quattro edifici, sistemati su un‘altura dominante Firenze, ricca di alberi da frutto e cipressi.
Quando l’Amministrazione fiorentina decide di recuperare l’insieme delle costruzioni per utilizzarle come struttura museale, vengono incaricati: Allen Irvine, Ignazio Gardella e Carlo Scarpa per restaurare l’edificio della villa; Giovanni Michelucci per trasformare l’orangerie in teatro e ristorante; Hans Hollein e Richar Meier per ristrutturare i due stabili delle ex-stalle.
Tali edifici si aprono su una piccola corte a cui si accede provenendo da sud-est.
A Meier è affidato il recupero di una delle due costruzioni in spazio per mostre di scultura e pittura.
Poi in accordo con la Soprintendenza, a causa del pessimo stato di conservazione dell’edificio, utilizzerà nella sua elaborazione solo le due pareti attigue, rivolte a sud-est e a sud-ovest. Il progetto in questo modo si sviluppa seguendo l’idea del “nuovo contenuto nel vecchio”.
Il volume della preesistenza viene concepito come un ambito entro cui parzialmente circoscrivere la nuova costruzione, immaginata con una struttura indipendente, in acciaio e vetro. Un piano di copertura, che sostituisce il vecchio tetto a spioventi, è posto sopra il cornicione esistente, a disegnare il diverso perimetro assunto dall’edificio.
A livello terra, lo spazio della galleria, in totale continuità con quello della corte, è concepito “come fosse un palco posto contro il fondale degli edifici” (38). Su tale scenario si affacciano: la rampa di circolazione, che indirizza e guida i vari percorsi e gli spazi espositivi, ai diversi livelli, collegati da essa.
In una breve scheda descrittiva che accompagna il progetto, Meier nota che un carattere di singolarità offerto dalla particolare posizione delle due gallerie superiori -accentuato dagli ampi squarci delle finestre che si aprono lungo il lato nord-ovest del complesso- è dato dalla sincronica visione dei materiali esoposti nelle sale e dell’immagine della città di Firenze.(39)
Provenendo dalla parte del cortile interno, tale studiata sequenza di diaframmi visivi, che conducono lo sguardo attraverso una serrata concatenazione di passaggi verso la valle dell’Arno, rivela, quasi in una subitanea apparizione, la molteplicità di suggestioni che tali spazi sono in grado di trasmettere, nonchè la ricchezza delle articolazioni attraverso cui può essere svolta la tematica della trasparenza.
Essa risponde ad un fondamentale concetto che Gyorgy Kepes, nel suo Language of vision definisce come ”percezione simultanea di diverse situazioni spaziali”, un effetto che, nel momento in cui travalica i definiti confini dell’ottica, è in grado di raggiunge “un più ampio ordine spaziale”(40).
In questo progetto Meier tende ad elaborare tale idea di trasparenza, soprattutto secondo l’accezione che ne da Colin Rowe, quando afferma che nel momento in cui la trasparenza si allontana dall’aderenza alla qualità fisica della realtà, viene a cessare definitivamente la sua capacità a delineare “ciò che è perfettamente chiaro” per designare “ciò che è chiaramente ambiguo” (41), che è la possibilità di guardare oltre il primo piano di significazione per scoprirne altri nascosti dietro di esso.
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Tra il 1976 e il 1977 Meier realizza quattro allestimenti (tre a New York ed uno ad Albany) che costituiranno in vario modo un momento di elaborazione molto imporante nella definizione e nell’approfondimento di quello che costituirà la sua visione di spazio museale, luogo deputato all’esposizione degli oggetti d’arte: il progetto per la galleria Weber-Frankel; l’allestimento della mostra “Man TransForms” al Cooper-Hewitt Museum; la sistemazione di una piccola sala di lettura all’interno del museo Guggenheim; l’allestimento della sezione dedicata alla New York School, all’interno la mostra intitolata “New York: State of Art” ad Albany.
Il filo che lega gli interventi per la galleria Weber-Frankel (1976) e il museo Cooper-Hewitt (1976), è il tema della metrica spaziale: nel primo caso esso è espresso attraverso l’incisiva presenza di una griglia di nove quadrati che, dal soffitto a cui è sospesa, governa, conforma e defininisce il carattere del limitato ambiente; nel secondo caso una analoga operazione è svolta dal grande cubo grigliato, che dalla sua posizione centrale, organizza lo spazio dell’esposizione, regola la dislocazione dei diversi elementi in esso collocati e indirizza i percorsi della visione (42).
Per la sala di lettura Aye Simon Reading Room (1977), presso il Guggenheim, si e trattato di un dialogo a distanza con Wright, ma ciò che qui interessa è l’insegnamento che egli trae, dal ‘contatto ravvicinato’ con lo straordinario monumento: il riflesso di quella singolare conformazione dello spazio nei confronti della percezione delle opere. ”Ho imparato dal Guggenheim Museum”, egli afferma, “dove si osserva un’opera, poi si fa un giro intorno alla rampa e quando la si considera nuovamente la si vede in maniera diversa” (43).
Ma l’origine di quella diretta dipendenza tra ‘visione multipla’ e oggetto, così strettamente legata all’esposizione dell’opera d’arte, Meier la riconduce al lavoro di Stella, in particolare alle esperienze degli anni Settanta. “Mentre il lavoro di Stella è sempre stato di natura chiaramente architettonica, è solo nelle opere a partire dal 1970 che si occuperà dello spazio dal punto di vista tridimensionale. In questo avvicinamento verso la concezione tridimensionale dell’opera, Stella inizierà ad intervenire e ad operare in quello che in precedenza era stato un territorio neutrale: lo spazio tra l’osservatore e il dipinto. Analizzando la natura della percezione, attraverso la multiforme complessità di questi lavori di grandi dimensioni, è possibile rendersi conto infatti che non esisteva più un solo, ideale punto di osservazione ma una sua infinita serie” (44).
Seguendo la concatenazione delle tematiche a cui questi lavori rinviano, l’allestimento per la mostra sulla New York School (1977), sembra porsi come l’epitome della ricerca di questi anni e nello stesso tempo l’espressione ideale di quello che egli considera essere l’essenza del museo contemporaneo, punto di riferimento per i progetti museali successivi.
Un aspetto singolare di questo progetto è il suo impianto che rinvia all’immagine di una struttura urbana, in particolare a quel quartiere newyorchese di artisti e gallerie d’arte, che è SoHo, dove negli anni Settanta, compiuto il suo estremo passo verso il monopolio dell’arte contemporanea, si trasformerà in luogo privilegiato “dove si determinano tutte le correnti e gli scambi nel mondo dell’arte” (45).
“Ero molto legato ai lavori ivi esposti. C’erano le persone, gli eroi della mia formazione: Rothko, de Kooning e Pollock e molti altri. E anche degli enormi dipinti. Tutte persone realmente di strada, gente che ha lavorato a New York, che realmente ha amato la città e che negli anni Cinquanta ha fatto di New York quel centro dell’arte che è oggi. Quindi in un certo senso, l’allestimento è una metafora della città. Ci sono al suo interno strade, finestre, stanze, edifici (...). Avremmo potuto realizzare una installazione che non mostrava solo le opere d’arte in un modo incredibile, ma fare una ulteriore affermazione sulla struttura della città all’interno dell’edificio. L’introduzione delle finestre ha consentito di osservare un’opera d’arte in un ambiente intimo e poi guardare attraverso di esse un’altra opera più distante ” (46).
La forte caratterizzazione della trama dell’orditura geometrica che costituisce l’apparato di questa complessa ‘macchina per la visione’, posta all’interno degli anonimi ambienti dell’Empire State Museum, frammentando e ricomponendo lo spazio, indirizzando le percorrenze, moltiplicando le prospettive, proponendo sempre nuovi punti di osservazione delle opere, sembra agire come quella complessa procedura di messa a fuoco dell’immagine attraverso l’occhio meccanico di una macchina fotografica
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Tra il 1979 e il 1985, Meier realizza tre importanti musei che, pur diversi per programma, dimensione e rapporto con il contesto, presentano tra loro numerosi punti di contatto. Sono: il Museum for the Decorative Arts a Francoforte, l’High Museum of Art ad Atlanta, l’Art Center Addition a Des Moines.
Il progetto per il Museum for the Decorative Arts (1979-85) che apre la serie, si propone, ad una prima lettura, come un ideale sviluppo delle esperienze antecedenti, come messa in atto di una ricerca progettuale chiaramente definita, nel suo elaborato processo di configurazione.
E’ lo stesso Meier a ricordare che nell’affrontare il tema del rapporto tra nuovo e preesistente, nell’intervento francofortese, ha tenuto presente la precedente esperienza fiorentina di villa Strozzi: “Nel nostro progetto di ristrutturazione di Villa Strozzi a Firenze nel 1973, ci siamo occupati del problema dell’integrazione tra il vecchio e il nuovo”; in quel caso, egli osserva, “il vecchio edificio costituiva il contenitore di quello nuovo (...), una specie di conchiglia che racchiudeva un gioiello moderno”; nell’edificio tedesco al contrario, “avviene l’opposto” (47). Anche nell’organizzazione dello spazio interno del museo, in cui egli tende a stabilire una molteplicità di angolazioni visive e di differenti punti di osservazione, fa riferimento ad un’esperienza precedente: “Come nel progetto per la New York School Exibition, l’architettura organizza le collezioni in modi diversi, offrendo allo spettatore la possibilità della scoperta e dello stupore mentre guarda le opere attraverso le varie aperture, così il distacco che viene a determinarsi nei confronti degli oggetti, permette di ricreare i loro stessi ambienti senza sopraffarli”(48).
Infine, per quanto riguarda l’applicazione del sistema della doppia griglia ruotata, su cui si articola il disegno dell’impianto, Meier afferma: “Qui, come nell’Atheneum, una sovrapposizione di griglie permette la riconciliazione tra gli assi del sito e l’organizzazione formale”(49).
Quello che tuttavia rende tale opera diversa dalle altre, è la teorematica relazione che viene a stabilirsi tra i termini referenziali del contesto designati a definirlo e i conseguenti atti progettuali di quel processo configurativo che investe l’oggetto architettonico in ogni sua parte. E’ come se per una fortunata combinazione, gli elementi costitutivi del contesto, la specificità dell’organismo museale, il programma proposto nella richiesta di concorso e le modalità strutturali del linguaggio meieriano, abbiano trovarto un momento di magica sintesi, un punto in cui si è realizzata un ideale intersezione tra piano concettuale e piano reale, dove ogni atto mentale e concreto a un tempo, ha saputo trovare corrispondenza in un’unica ferrea logica attraverso cui va a conformarsi, alle diverse scale di progetto, l’immagine poetica che la sostanzia.
La ricerca configurativa dell’oggetto architettonico si sviluppa attorno all’idea di ampliamento espressa, come in un illusionistico gioco di specchi, mediante la moltiplicazione di un edificio preesistente, villa Metzler, ormai insufficiente a contenere la pregevole collezione d’arte decorativa. L’iterazione del volume della villa, assunto come ‘elemento metrico-proporzionale’, sembra voler andare oltre il, già menzionato, tema del museo come casa (50), ponendo maggiormente l’accento sul rapporto con il carattere urbano dell’area (denominata Sachsenhausen) costituito in prevalenza da residenze unifamiliari isolate, risalenti allo scorso secolo.
La prima fase dell’operazione è quella della creazione di una griglia divisa, come una scacchiera, in 16 parti ciascuna delle quali riprende la dimensione della pianta quadrata della villa, che misura m.17,60 di lato.
All’interno di tale reticolo geometrico, la collocazione dei quattro volumi ai vertici della figura , compongono la base dell’impianto.
La seconda fase corrisponde all’introduzione di un’altra griglia, che si allinea all’andamento del tratto del fiume Main, sul quale la vecchia costruzione si affaccia.
Le diverse giaciture, dell’edificio e del fiume, producono uno scarto di 3,5 gradi tra i due sistemi.
Il primo sistema, entro il cui ambito sviluppa il processo di ‘moltiplicazione’ dell’elemento primario d’origine, sembra rimandare all’immagine sublimata dello storico quartiere, mentre la definizione del quadrato entro cui la figura si chiude, rinvia all’idea di un nuovo ‘ordine’ che si intende raggiungere.
Il secondo sistema, relazionato al fiume -se interpretato attraverso la figura retorica della sineddoche- rappresenta la città vista nel suo insieme.
In questo modo il fragile equilibrio dell’organizzazione spaziale domestica e il dinamismo tumultuoso delle strade, si presentano come due realtà contrapposte che non possano trovare un punto di saldatura se non percorrendo un intricato processo di elaborazione formale. E’ il rifiuto del racconto progettuale che punta ad una sua immediata comunicazione con il mondo esterno, privilegiando itinerari mentali più segreti, che varcano i territori dell’autobiografia (51).
Nel primo sistema si attua una chiara identificazione tra lo spazio espositivo e l’ambiente domestico: “la scala domestica degli oggetti esposti in questo edificio museale, ha accentuato la sua immagine di casa con giardino” (52). Nel secondo si stabilisce una stretta correlazione tra percorso museale e strada urbana che, come è stato precedentemente sottolineato, rappresenta la metafora della città.
In tale operazione, l’architetto trascina l’ordine logico dei pensieri, concatenati nella controllata sequenza degli atti progettuali, verso l’impalpabile percezione del senso di una città che invade il quieto ordine domestico sconvolgendone gli antichi e consolidati equilibri. “La sensibilità moderna”, egli osserva, “non genera più forme perfettamente centrali. Viviamo nei frammentati interstizi del mondo e il mio principio ordinatore di base riguarda tali strutture interstiziali” (53)
La sovrapposizione dei due sistemi che genera la radicale contrapposizione tra ordine e disordine e il modo di considerarne gli effetti, rivela uno dei tratti caratteristici del pensiero meieriano: “Per prima cosa dobbiamo determinare un ordine”, egli afferma, “ e poi creare una certa quantità di disordine, per ritrovare la vera essenza [del progetto] e le qualità che gli sono proprie, ma il problema è scoprire come poter rendere semplifice tutto questo in modo che l’ordine possa permettere a degli elementi fortuiti di entrare in gioco e diventare significativi. Senza l’ordine il risultato sarebbe una serie di gesti casuali e non una gerarchia di elementi che hanno a che fare con l’ingresso, la circolazione e il movimento, come una sequenza di eventi con un inizio, un centro e una fine”. (54)
Tale effetto viene trasmesso anche all’organizzazione degli spazi interni, quasi maniacalmente in seguito nei suoi multiformi aspetti, che si esplicitano nell’accurata determinazione delle percorrenze e si specificano nella presenza di un ricco apparato di pareti-quinta, dove sono state praticate aperture e varchi di varia forma e grandezza il cui fine, come sappiamo, è quello di offrire al visitatore una estesa gamma di visioni sia a distanza ravvicinata che in lontananza.
Nell’articolato gioco delle volumetrie, che l’intricata trama relazionale dei sistemi determina, nei calibrati e definiti ambiti che l’organismo racchiude in sé, esternità ed internità trovano nuovi ed inconsueti rapporti in una serrata sequenza di varianti espressive. Il sapiente uso della luce costituisce il tramite descrittivo della ricchezza formale dell’oggetto architettonico. In questa esplosione plastica di volumi sotto la luce, è forse possibile risentire l’eco degli approfonditi studi di Meier sul barocco, italiano e tedesco.
Il secondo edificio della terna proposta, è l’High Museum of Art (1980-85), progettato quasi contemporaneamente al precede.
Pur affine ad esso, per numerosi aspetti analogici di impostazione, se ne distacca per altri, che ne hanno condizionato in maniera determinante l’impostazione progettuale; essi sono: l’assenza di preesistenze storiche con cui doversi confrontare e l’appartenenza ad un contesto geografico e culturale profondamente differente.
Nel modo di considerare il ruolo del contesto, all’interno del processo configurativo dell’oggetto e nella conseguente procedura ideativa volta alla sua definizione formale, Meier individua due diversi orientamenti che distinguono la concezione del museo europeo da quello americano. “I musei negli Stati Uniti e in Europa si basano su due differenti impostazioni”, egli nota, “ In Europa l’interesse verte principalmente nel rapporto tra interno ed esterno. Negli Stati Uniti non è lo spazio l’elemento dominante, ma il flusso della circolazione attraverso di esso. Il modo in cui ci si muove all’interno di un ambiente è spesso molto più inportante dell’ambiente stesso. Il sistema della circolazione negli Stati Uniti tende a coincidere con quello della visione. Io mi sforzo di individuare un punto di mediazione tra questi due indirizzi perchè quello che mi interessa e la loro sintesi ”(55).
Se allora il museo di Francoforte si caratterizzava per il suo aprirsi verso l’esterno e per il suo tendere continuamente a far convergere verso l’interno le immagini provenienti dal giardino (e, più in lontanaza, dal fiume e dalla città), quello di Atlanta si distingue per il suo chiudersi verso l’interno (“It’s an introverted building”), per il suo indirizzare l’attenzione del visitatore verso spazialità intime dell’organismo.
Le diverse parti dell’organismo dell’High Museum si dispongono infatti attorno ad una vasta hall di forma semicircolare, entro cui si sviluppano le rampe e si affacciano i diversi piani espositivi. Il modello a cui si rivolge, come sappiamo, è quello del celebre museo wrightiano, sul quale Meier opera alcuni fondamentali modifiche derivate: “Pur con la separazione della distribuzione verticale dallo spazio della galleria, siamo riusciti a mantenere un continuo rapporto visivo con lo spazio centrale pieno di luce”(56).
Il tragitto visivo del visitatore lungo il percorso, pur predisposto da una articolata serie di sequenze architettoniche, si sviluppa e si ricompone all’interno del quadro della visione d’insieme. Nella netta separazione tra circolazione e ambienti espositivi, il fruitore ha modo di stabilire, come in una ‘circolarità chiusa’, un proprio rapporto con con gli oggetti artistici e con le altre persone presenti.
Altro aspetto sostanziale (quasi un corollario del precedente), che ulteriormente distingue i due orientamenti museali, è il differente impiego dell’illuminazione naturale e artificiale: “In Europa, cosa fondamentale è la luce naturale, quindi un museo senza finestre risulta impensabile. In America invece la luce naturale è considerata nemica dell’arte, così si preferiscono i musei senza fonte di luce esterna ” (57).
Percorrendo la promenade esterna, che sale dolcemente verso l’entrata dell’Higt Museum of Art, superato un piccolo padiglione posto in basso lungo la Peachtree Street, si ha a sinistra la bianca massa volumetrica dell’auditorium, a destra il basso e sinuoso corpo dell’ingresso e al centro una parete-portale che, legata al corpo dell’auditorium, attraversa ortogonalmente la parte mediana della rampa andando a costituire una sorta di ‘camera ottica’ che inquadra prospetticamente l’imponente volumetria esterna della hall, illuminata dall’alto da un lucernario, con la sua parete curva in vetro e acciaio, scandita verticalmente dal passo delle sue strutture. Dietro il corpo della hall, infine quello ad L delle gallerie.
La pianta, entro cui si condensa l’idea fondativa del progetto, come per il museo tedesco, si basa sul quadrato -di cui la rampa esterna ne costituisce la diagonale- divisa a sua volta in quattro settori, uno dei quali è stato rimosso e sostituito con un quarto di circonferenza.
Tale elemento, che modifica l’ordine geometrico dell’insieme, è la hall, figura centrale dell’organismo, che si pone come ‘piazza coperta’ entro cui va a stabilirsi una mediazione tra la spazialità propriamente museale e spazialità pubblica, legata alla vita della città: “E’ prenotata quasi tutte le sere per allestire cocktail parties e sfilate di moda. E’ un centro culturale che diventa anche centro sociale”(58); infatti egli osserva che il museo “è inteso ad incoraggiare la scoperta di valori estetici ed a trasmettere l’idea di essere allo stesso tempo un luogo pubblico e di contemplazione”(59).
Nel 1982, mentre procedono i lavori per Francoforte e Atlanta, Meier ha l’incarico per il Des Moines Art Center Addition (1982-85), che conclude la terna.
Il primo edificio, un corpo basso con un impianto planimetrico a U, realizzato da Eliel Saarinen, risale al 1948.
Il successivo ampliamento, una sala delle sculture che si inserisce tra le due ali della costruzione, progettata da I.M.Pei, è del 1965. Il cortile venutosi a creare con tale nuovo inserto, ideale prosecuzione dell’interno, comprende una fontana e, lungo il lato ovest, il complesso bronzeo Pegaso e Bellerofonte, dello svedese Carl Milles, voluto a suo tempo da Saarinen.
L’ulteriore ampliamento realizzato da Meier, rende questo centro d’arte un fondamentale documento architettonico o, come è stato osservato, un “museo d’architettura” in sé stesso.
L’intervento presentava delle notevoli difficoltà di impostazione. Infatti pur essendo estremamente apprezzabile la soluzione di Pei, con la chiusura dello spazio del cortile, aveva reso problematico qualunque futuro ampliamento. “L’edificio era già completo, quindi ulteriori aggiunte dovevano essere dei padiglioni separati e collegati agli edifici esistenti”(60).
Entrando all’interno della piccola corte chiusa, dove Meier ha aggiunto il corpo del ristorante, lungo l’asse est-ovest dell’ingresso, si ha modo di percepire immediatamente il senso di equilibrio e di misura con cui è stata condotta la delicata operazione.
Partendo dal quadrato della pianta del cortile centrale, e facendo riferimento alla piccola costruzione meieriana posta nell’angolo nord-ovest, si può notare come essa riesca a regolare le due addizioni esterne, tramite due direttici ortogonali originate in quell’angolo. Essi sono gli elementi che costituiscono il principio generatore dell’organismo che ne guida la crescita.
A ovest abbiamo il corpo destinato a sala-riunioni e ad ambienti direttamente legati all’attività del ristorante.
A nord la nuova galleria espositiva, per mostre temporanee e permanenti, separata rispetto al complesso museale, è collegata ad esso, tramite un breve pasaggio vetrato.
Si tratta di un ‘montaggio tridimensionale’ di volumi, di varia forma e dimensione, organizzato attorno ad un prisma a base quadrata, rivestito in granito rosa-beige, che si distingue dall’insieme per altezza, qualità del materiale (pannelli di acciaio porcellanato) e colore (bianco lucido).
All’interno dell’aggregato volumetrico, gli spazi espositivi si distribuiscono secondo la logica determinata dal volume quadrangolare centrale, che esercita il ruolo di elemento regolatore della spazialità dell’insieme.
Il volume semicircolare, che si affianca alla figura centrale, nel cui interno si avvolge la scala, ricorda la hall di Atlantata e, pur nella proporzione ridotta, il loro rapporto analogico segnala, quasi in contrasto con la straordinaria capacità inventiva di Meier, l’abitudine di ritornare su tematiche formali già affrontate, per cogliere in esse nuove valenze espressive.
Il gioco delle percorrenze, in cui l’architetto tende a sviluppare fino alle estreme conseguenze la tematica della visione, prosegue anche all’esterno mediante un complesso apparato di scale, affacci, aperture, varchi, dove la struttura architettonica, attraverso una sequenza di pasaggi logici, da spazio per l’esposizione si propone quale luogo di osservazione, fino ad offrire se stesso quale oggetto di contemplazione. “Attraverso il sistema di circolazione, il criterio di illuminazione e le sue specifiche qualità spaziali, il museo incoraggia il pubblico ad apprezzare il contesto architettonico in sé, al di là delle opere che sono esposte al suo interno”(61)
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Parte integrante di questa sequenza museale ci sembra debba essere consi-derata l’opera, eseguita da Meier nel 1980, in collaborazione con Stella. Essa costituisce un’importante occasione di collaborazione tra i due amici, ma anche un ulteriore tentativo, per dirla con Goldberger, “per stabilire un equilibrio tra architettura ed arte” (62).
L’operazione prende spunto da una iniziativa dell’Architectural Legue of New York che organizza una mostra intitolata “Collaboration: Artists & Architects”.
Il tema scelto è quello della casa suburbana unifamiliare; per questo essi riprendono un precedente progetto di Meier, Giovannitti House a Pittsburgh (1979-83), a quel tempo non ancora realizato, limitando l’intervento alla rielaborazione delle vetrate. “E’ l’ovvio dettaglio che cattura la nostra attenzione”, scrive Stella, “Le aperture attraverso le quali passano oggetti, persone, luce e aria, creano uno spazio animato e controllato”(63).
Stella proporne delle sagome colorate da applicare sulle vetrate, col doppio intento di realizzare elementi di decorazione e di protezione dalla luce.
La soluzione, che ripercorre una antica tradizione medioevale, consente, qualora si ritenga opportuno farlo, di sostituire o rimuovere del tutto le silhouettes.
“Partendo dalla considerazione che la luce è un fattore attivo dello spazio in cui viviamo o degli spazi che Richard costruisce” scrive ancora Stella, “bisogna porsi in relazione con essa. Disengare sugli schermi traslucidi delle finestre è stato un modo interessante per mettere in evidenza la luce senza bloccarne il passaggio”(64).
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La serie di musei progettati e in parte realizzati nella seconda metà dello scorso decennio, inizia con: il Barnum Museum a Bridgeport; il Weishaupt Forum a Schwendi; il Museum of Ethnology a Francoforte.
I primi due edifici hanno come dato comune il fatto di costituire degli organismi museali di modeste dimensioni, inseriti all’interno di complessi più ampi, destinati ad attività varie: commerciali, direzionali o manufatturiere.
L’ampliamento del Barnum Museum (1984-89), è parte integrante di un’ala del Bridgport Center, situato lungo Main Street a cui si lega il volume del vecchio museo ottocentesco, dove è conservata la ricca collezione di attrezzature circensi di P.T.Barnum.
L’edificio del Bridgport Center si presenta come un insieme composito di volumi di varia grandezza, “a city in miniature”, luogo deputato ad attività commerciali, economiche, amministrative e culturali. L’impianto cresce a ventaglio attorno ad un ampio atrio alto cinque piani, vero perno del vasto organismo.
Il braccio dell’imponente costruzione, che punta a sud verso la Connecticut Highway, si congiunge a piano terra all’edificio preesistente, tramite una galleria per esposizioni temporanee che si apre verso l’esterno; al secondo piano si trova il centro didattico e al piano superiore la caffetteria.
Il Weishaupt Forum (1987-92), costruito per un industriale bavarese, sorge accanto ad un attivo insediamento industriale.
L’intervento progettuale costituisce a un tempo l’elemento unificatore delle costruzioni esistenti e nuovo ingresso del complesso.
Il disegno dell’impianto si compone di tre elementi, disposti secondo uno schema planimetrico a U: due edifici paralleli, di modeste dimensioni, e un un percorso coperto che li congiunge. L’elemento di collegamento ritma e scandisce, attraverso il passo della sua struttura, lo spazio del giardino racchiuso dall’organismo.
Nella prima delle due costruzioni si trova la mensa per 260 posti, la cucina e la caffetteria a doppio livello, segnalata dal volume semicircolare, che rompe la serena compostezza dell’impianto; al primo piano si trovano due aule, un laboratorio e il piano superiore della caffetteria, con accesso indipendente.
Nella seconda costruzione a piano terra è sistemato l’auditorium per 50 posti e uno spazio per l’esposizione dei prodotti della fabbrica; al piano superiore, la piccola galleria privata d’arte contemporanea.
Infine il Museum of Ethnology (1989-), la cui area d’intervento si trova accanto a quella del Museum for the Decorative Arts.
L’impianto progettuale segue un criterio di continuità con l’ormai celebre museo e con il parco su cui entrabi ci affacciano.
In questo lavoro egli segue due differenti orientamenti.
Il primo è quello che fa riferimento al disegno delle percorrenze del parco. Lungo tale allineamento si attestano: il corpo della galleria vetrata che involucra la rampa di percorrenza ed un dinamico volume, composto da una parete curva ed un piano diagonale, posto dinanzi all’ingresso, entro cui sono stati collocati i resti della grande barca della Melanesia.
Il secondo è quello che si affaccia sulla la Metzlerstraße, dove si dispongono, al di qua e al di là della strada, le volumetrie di progetto, collegate tra loro da un percorso aereo vetrato.
Gli spazi espositivi sono concatenati tra loro, lungo il lato del parco, in base ad una sequenza di quadrati. L’andamento sincopato del loro procedere è come quello di una sequenza musicale dove la pausa ha lo stesso valore della nota.
Il volume dall’altro lato della Metzlerstraße, ospita gli uffici amministrativi e un auditorium, negli spazi sotto la quota stradale, la biblioteca e i laboratori di restauro.
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I progetti museali che seguono, si caratterizzano per il ruolo determinante, assunto dalla figura curva, nel processo formativo dell’organismo. Essi sono: l’Exhibition and Assembly Building ad Ulm, il Museum of Contemporary Art a Barcellona e, più recente, il Jean Arp Museum a Rolandswerth .
Il tema dell’elemento circolare è presente fin dai primi progetti meieriani (65). Ma per ciò che concerne il riflesso generato, nella struttura compositiva, da superfici curvilinee o da elementi cilindrici, impiegati come ‘controsistema’ -istituiti per contrastare l’uniforrme regolarità della griglia geometrica di base, per negarne l’ordine implicito- bisognerà attendere un periodo successivo.
Contenuta, in nuce, tale concezione, nella hall del museo di Atlanta -se letta come trasposizione dell’immagine spaziale del Guggenheim- essa prende consistenza di elemento strutturale dell’organismo, con l’Exibition and Assembly Building di Ulm (1986-93). Ma in questo caso essa si attua in maniera inversa rispetto al referente wrightiano: l’effetto centripeto di quel vuoto, accentuato dalla rampa che si avvolge lungo il bordo parietale, si trasforma nel pieno di una spazialità centrifuga, dove i volumi contenuti nel suo interno tendono ad esplodere verso la piazza.
Lo schema planimetrico del progetto, si basa su una figura cilcolare che racchiude una serie di frammenti di circonferenze con al centro una maglia regolare di nove quadrati. La volumetria è poi tagliata, per i primi due piani in coincidenza con un lato della griglia interna, da un corpo lineare che, seguendo la direzione della Hirchstraße, congiunge la costruzione principale con un’ altra, più piccola, esterna ad essa (66).
L’incisiva presenza di tale figura-contenitore, che si erge dinanzi alla maestosa cattedrale gotica circoscrive, all’interno di un definito ambito, un composto di volumi destinati a diverse funzioni: un ufficio turistico, un’aula assembleare comunale, una galleria espositiva su due piani, un ristorante.
Tali spazi in parte fuoriescono dal cilindro e vanno ad invadere l’ambito perimetrale esterno, attuando in questo una sottile strategia progettuale.
Bisogna osservare che la ricostruzione avvenuta dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, poco attenta ai caratteri ambientali storici, ne aveva compromesso il consolidato equilibrio.
L’intento del progetto è stato quello di rispondere a tutta una serie di problematiche contestuali, che a varia scala attendevano specifiche risposte. “Ad Ulm abbiamo dovuto affrontare diversi problemi”, ricorda Meier, “per prima cosa il rapporto con la facciata della grande chiesa gotica e con la piazza della cattedrale, ma anche quello con la strada pedonale che entra nella piazza e con le case esistenti” (67).
Si trattava, per prima cosa, di riconformare il vuoto urbano recuperando gli antichi equilibri perduti, riformulando i termini spaziali del luogo, distinguendo i differenti ambiti attraverso la collocazione del nuovo organismo. In questo modo è stata definita l’area della piazza, con la realizzazione di una nuova pavimentazione e un circuito di percorreza esterna ad essa, con la creazione di un viale di sicomori.
L’edificio si pone lungo il margine sud-ovest del nuovo perimetro della Münsterplatz, tentando di inserirsi nella trama dei percorsi pedonali esistenti, favorendo e moltiplicando il gioco delle visuali che hanno come fuoco la fascinosa presenza dello storico monumento.
Intento dell’operazione è stato quello di individuare un equilibrato rapporto sia nei confronti della massiccia mole della cattedrale -attraverso la proposizione dell’immagine unitaria del volume cilindrico- che in quelli del tessuto minuto circostante, mediante la rottura dell’unità di quel volume, per riportare l’attenzione verso il carattere dell’abitato, tramite assonanze formali: come nella copertura della galleria espositiva che riprende il motivo dei tetti a doppia falda delle case intorno.
Un aspetto caratteristico del progetto sembra risiedere proprio in questa duplicità, nella capacità di esprimere la compiutezza della propria essenza attraverso l’affermazione di due intenzionalità contrastanti fuse all’interno del medesimo atto progettuale: da un lato la volontà di opporsi, tramite l’allusione ad un’immagine unitaria e compatta, allo sciacciante dominio del volume ecclesiale e dall’altro quella di assecondare gli andamenti, le sequenze, i ritmi, le proporzioni tipiche di un tessuto storico.
Il Jean Arp Museum (1990-), posto su un fianco collinare che si affaccia sul Reno, nell’area del castello di Roland, segue su un’analoga impostazione.
Osservando gli schemi configurativi che abitualmente accompagnano le immagini di tale progetto, una volta indicata la localizzazione dell’area, come guardando attraverso la lente di un mirino telescopico, in coincidenza del punto d’incrocio degli assi, si vede apparire una circonferenza; questo sta a segnalare il ruolo centrale che, il volume ad essa corrispondente, dovrà assumere nella composizione.
Su questa prima definita immagine viene sovrapposta una griglia che si dispone in posizione lievemente ruotata rispetto all’andamento del fiume. Essa prende origine da un quadrato inscritto nel cerchio, per poi svilupparsi autonomamente, andando a rompere l’unità e la compattezza dell’immagine primitiva.
Lungo l’orditura della griglia è posizionato un corpo a spina, che ha funzione di galleria e di struttura di collegamento. La sua dimensione complessiva, l’orientamento e la scansione ritmica della sua fronte, derivano direttamente dal passo del trama geometrica a cui fa riferimento.
Lo schema andrà complicandosi nei passaggi successivi. Esiste infatti un secondo quadrato ruotato, segnalato dalla posizione della scala esterna e dalla parete-quinta su cui si avvolge ed una circonferenza, traslata rispetto a quella principale -designata dal frammento di figura circolare- che attraversa da un lato la parete-quinta e dall’altro il volume interno al cilindro.
Il piano basamentale, ricavato nel fianco della collina, dove sono gli uffici, la bibioteca, i magazzini, i servizi, costituisce il podio su cui si erge l’organismo museale composto da un volume racchiuso dal cilindro (utilizzato sia per gli spazi per l’esposizione delle opere dello scultore che per occasionali concerti di musica da camera) e da un lungo corpo a spina che con un’estremità penetra all’interno del ‘tamburo’ e con l’altra si connette ad un voume cubico destinato a mostre tremporanee e foresteria per artisti.
L’insieme dell’apparato iconico che concorre alla definizione dell’oggetto, in questo come nel caso precedente, sembra perseguire un procedimento basato sul doppio registro di attribuzione e revoca del valore, del ruolo e delle finalità dell’immagine, nel contesto ideativo del progetto. Una sorta di ossimoro formale dove la figura tende a proporsi come chiusa, autoriflessa, ripiegata verso l’interno del proprio ambito e contemporaneamente esplosa, aperta, proiettata all’esterno da un’energia interiore, quasi un’inclinazione dell’istinto, volta a rifiutare o modificare, la prevedibile conclusione rispetto agli assunti da cui era partita.
Analogamente ad esperienze precedenti in cui Meier si è dovuto confrontare con edifici preesistenti o aree urbane di valore storico, nel progetto per il Museum of Contemmporary Art di Barcellona (1988-), l’edificio è inserito nel cuore del centro antico della citta catalana, dove ha sede il complesso conventuale della Casa de la Caritat.
Il posizionamento assunto dalla costruzione, che determina una netta scansione tra la Plaça dels Angels e il giardino sul retro dell’isolato, interrompe la continuità spaziale che caratterizzava precedentemente l’area. Tali distinti ambiti individuano un loro punto di riconnessione nel paseo, un percorso che attraversa ortogonalmente il corpo dell’edificio museale.
L’ingresso dell’edificio si trova lungo il tratto del paseo. Superato il dislivello con il piano della piazza (attraverso una comoda rampa o una breve gradinata), immediatamente si incontra l’accesso.
Procedendo verso l’interno, si entra in un vasto ambiente circolare -elemento caratteristico dell’impianto- e successivamente nella hall. Tale spazio, situato internamente alla lunga struttura rettilinea che corre tangente al volume cilindrico, è posto in diretta prosecuzione con il vuoto a tutta altezza che accoglie la rampa di circolazione. Quest’ultima mette in comunicazione tra loro le sale espositive, disposte su tre livelli. Il volume che le contiene è dimensionato in base a quello della facciata della frontistante Casa de la Caritat.
Nell’ala a sud-ovest, che si raccoglie all’interno del lungo muro curvo che disegna un lato del paseo, si trovano spazi espositivi più raccolti, particolarmente adatti ad opere di piccole dimensioni, mentre all’estremo opposto, a nord-ovest dell’isolato, sono situati: la biblioteca, gli uffici, gli spazi vendita e una caffetteria che si apre sul giardino delle sculture; i magazzini sono nel piano sottostante.
Sull’orditura regolare della griglia, scandita da 18 quadrati, come in un’ideale scacchiera, le unità funzionali di cui si compone l’organismo, occupano la loro strategica posizione. Tale trama, peraltro, costituisce il termine referenziale fondamentale mediante il quale la costruzione riesce a tessere attente e calibrate relazioni con l’ambiente storico circostante.
La figura circolare che si sovrappone al disegno di base non rappresenta più, come nei casi precedenti, la matrice primaria del processo ideativo, ma termine secondo, non subordinato tuttavia alla logica della griglia; esso infatti rompe l’uniformità dell’orditura, andando ad incrementare e dilatare l’effetto delle sequenze spaziali connesse al sistema delle percorrenze, che costituiscono la struttura portante dell’impalcatura spaziale dell’organismo.
Nell’invenzione del ‘tamburo’ centrale e del muro concavo che gli corre vicino, Frampton vede il punto di raccordo tra spazi interni ed esterni, una sorta di valvola posta “tra la corte a giardino del museo, sul retro dell’edificio, e l’entrata principale che si apre sulla Plaça dels Angels“ (68).
La piazza, su cui si affaccia l’edificio museale, si trova in una posizione nodale del barrio, luogo di attraversamenti, di antichi e nuovi percorsi pedonali, di incroci e di intersezioni visive. Meier concepisce questo spazio come luogo d’incontro dunque, ma soprattutto come parte integrante del museo stesso.
Nel rapporto con le costruzioni circostanti l’edificio trova adeguata espressione nel processo di ‘frammentazione’ dell’immagine complessiva delle fronti.
Considerando con particolare attenzione l’organizzazione del prospetto che si rivolge verso il delicato contesto della piazza, risulta evidente la volontà di riduzione dell’unità della fronte ad un rapporto proporzionale con le preesistenze storiche, mediante l’uso di un complesso e vario apparato formale che opera secondo strategie basate su sistematici avanzamenti e arretramenti di pareti, balconi, strutture verticali e orizzontali, grigliati, brise soleil; come pure arretramenti di piani e inserti di plastiche volumetrie che vanno ad invadere l’area basamentale su cui si poggia l’organismo. Tale articolato dispositivo di elementi formali presenta differente definizione materica, disegno, texture, cadenza ritmica.
E’ un procedimento basato sulle permeabilità visive e sulla tridimensionalità del piano prospettico. Essi si combinano con una sapiente orchestrazione degli effetti chiaroscurali, che contrappuntano le diverse declinazioni volumetriche.
Tutto questo si riflette all’interno dell’edificio museale, nell’attento dosaggio dell’illuminazione naturale, reso attraverso opportuni filtri parietali, coperture vetrate, pozzi di luce, inseriti e attentamente posizionati, secondo definite necessità o altrettanto specifiche esigenze volte ad esaltare il carattere della spazialità degli ambienti espositivi.
***
Il lungo itinerario che abbiamo percorso, attraverso il museo meieriano, termina con il suo progetto più importante e più impegnativo: il Getty Center a Los Angeles (1984-), attualmente in fase di realizzazione.
Il museo raccoglie una cospicua porzione della famosa collezione d’arte (69) iniziata da J.Paul Getty negli anni Trenta.
Nel 1953 viene costruita a Malibu, all’interno di un lussureggiante parco, la prima casa-museo.
Nel 1974, ampliatasi la collezione, è affidato l’incarico a Langdon e Wilson di realizzare nella stessa area, un nuovo museo che riproduce la pompeiana villa dei Papiri (distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.).
Nel 1984 il Getty Trust affida l’incarico a Meier di realizzare un organismo museale che, oltre alle sue finalità istituzionali, sia in grado di porsi come centro di ricerca e di studio dell’arte.
Le qualità naturali dell’area scelta per l’insediamento -il colmo di un rilievo collinare nella zona di Brentwood- e la sua particolare morfologia, costituiranno uno dei temi dominanti dell’intervento. Il carattere di quell’ambiente naturale sarà visto, infatti, come fonte di ispirazione ed elemento di determinazione della struttura formale del progetto.
Una tematica che viene affrontata fin dall’inizio riguarda le modalità del rapporto tra esterno ed interno, tra la spazialità propria dell’organismo, chiuso nel suo involucro parietale e le qualità proprie della natura circostante. Nella chiarificazione di tale rapporto, lo stesso museo Getty di Malibu costituirà un primo immediato modello. Quando Meier ha occasione di visitarlo rimane colpito dalla fluida relazione tra edificio e giardino. “Mentre si può discutere a proposito dello stile dell’edificio”, egli afferma, ”la sua bellezza ha a che fare con la fluidità dello spazio, ovvero la libera circolazione tra l’interno e l’esterno. Questo, secondo me, sarà uno degli elementi più importanti del nuovo edificio del Getty Center che stiamo progettando”(70).
Ma egli ricorda anche di aver tenuto conto di altri fondamentali modelli. Prima di iniziare il progetto infatti, con alcuni membri del Getty Trust, compie un viaggio di studio “che comprendeva Villa Adriana, Villa Lante, Villa d’Este ed altri musei in Europa -per conoscere luoghi relazionabili alla nostra situazione collinare ed al nostro programma”(71).
L’area del nuovo complesso, delimitata dall’incrocio tra la San Diego Freeway e il Sunset Boulevard -suggestiva per l’ampio e diversificato affaccio verso l’oceano, le montagne, il deserto e la città di Los Angeles- presenta una profonda depressione, nella zona centrale, demarcata da due creste collinari.
Fondamentale atto decisionale sarà quello di colmare l’avvallamento centrale con terreno di riporto.
Questo intervento di ‘rimodellazione’ del terreno ci riconduce a una difficoltà, fortemente avvertita da Meier in questo progetto, legata all’esigenza di interpretare e definire, il carattere del contesto. Sembrava, all’inizio, che il senso di quell’area non fosse facilmente raggiungibile: “Il luogo si presenta in modo molto complesso”, egli afferma, “Esso pone delle difficoltà in termini di relazione con la natura (...). Ci sono stati diversi spostamenti di terra. Con un paio di ruspe si può fare qualsiasi cosa. Quello che c’era prima non è sacro perchè è già stato modificato più volte”(72).
E’ dunque attraverso l’attenta analisi del luogo che Meier riesce a determinare quella sequenza logica di atti destinati ad individuare e correlare tra loro i segni fondativi del progetto E’ una sapiente impalcatura formale, costituita da definite assialità, attenti rapporti metrici, rigorose sequenze ritmiche, strategiche dislocazioni di volumi, entro cui va a conformarsi l’immagine architettonica.
Gli elementi che emergono da tale lettura e indirizzano le scelte progettuali, sono essenzialmente due: il parco centrale, considerato come elemento di interazione tra architettura e paesaggio, e il sistema delle griglie geometriche che incorporano nella propria trama, attraverso un opportuno processo elaborativo, i caratteri del grande disegno territoriale, unitamente a quelli più direttamente connaturati alla configurazione fisica dell’area.
Un primo atto progettuale parte con il considerare questa spina centrale verde -divenuta parco urbano, mediante un’accurato intervento di piantumazione- quale asse primario della composizione.
Tale struttura centrale, esaltata dalla sequenza delle vasche d’acqua del giardino che scendono a gradoni seguendo la direttrice nord-sud dalla corte d’ingresso fino ad un passaggio pergolato, giocherà, come vedremo, un ruolo importante nella ricerca di definizione di un tramite unificante delle articolate volumetrie dell’intero complesso (73).
Il percorso con pergola, posto ortogonalmente rispetto all’orientamento delle vasche, costituisce l’ultimo elemento costruito, terminale dell’insediamento, oltre il quale, più in basso, si trova solo l’anfiteatro verde.
Un secondo atto progettuale riguarda, la determinazione del sistema delle due griglie geometriche sovrapposte, che guidano il posizionamento dei diversi edifici.
La prima delle due, si orienta lungo il crinale che segue l’asse nord-sud su cui è impostato il tessuto urbano di Los Angeles West e un tratto della San Diego Freeway che l’attraversa.
La seconda, ruotata di 22,5 gradi rispetto alla direttice fondamentale, assume la direzione dell’altro crinale, che si allinea al tratto della San Diego Freeway, nel punto in cui si approssima maggiormente al sito.
La griglia posizionata secondo la prima direttrice, organizza un insieme di costruzioni quali: l’Auditorium, l’Art History Information Program, il J. Paul Getty Trust Offices, il Conservation Institute, il Center for Education in the Arts, il Center for the History of Art and the Humanities.
La seconda griglia orienta invece un’altra serie di edifici quali: la Tram Station (74), il Café-Restaurant, il Museum.
L’organismo museale, composto da un insieme di volumetrie variamente articolate, subisce l’interferenza di un asse secondario est-ovest, che modifica la posizione di alcuni corpi, accentuando in questo modo il senso di frammentazione dell’unità dell’insieme. “Il Getty consiste (...) in una serie di edifici collegati in modo che ogni collezione sia in un certo senso un piccola unità autonoma. E’ un edificio, ma anche molti edifici insieme”(75).
Sembra che quel caratteristico metodo operativo basato sul doppio registro espressivo (quell’effetto di duplicità già riscontrato in lavori precedenti) nella presente situazione riemerga con più forza, ma espresso con modalità diverse.
Per meglio chiarire il senso di tale processo di frantumazione della figura, che la sottrae da una sua definizione conclusiva e unitaria, può soccorrere un pa-rallelo, che lo stesso Meier istituisce, con la sua esperienza dei collages. “Gli edifici, si potrebbe dire, sono frammentati come nei miei collages”(76).
Tale molteplicità di elementi non potrebbero sussistere, nel suo universo progettuale, senza un termine referenziale forte, un’immagine ideale e reale a un tempo, capace di ricomporre l’insieme in una nuova e più complessa unità.
Il mutevole orientamento dei corpi, le reciproche invadenze volumetriche, le improvvise cesure delle sequenze ritmiche, la compresenza di figure curve e rettilinee nel trapasso tra un organismo e l’altro, sono il riflesso di una declinazione spaziale dinamica, totalmente estroversa, che ci riconducono all’immagine iniziale del giardino.
Si tratta di un rovesciamento di valori, l’esterno come interno e l’interno come esterno: l’esterno-interno del giardino-museo racchiuso nell’interno-esterno degli edifici che gli fanno corona. L’elemento unificante, la struttura organizzatrice di tale sommatoria di forme autonome, è costituito dal sistema verde centrale. Non a caso Meier sente la necessità di lasciar trasparire, nell’inserto del sistema delle fontane, il ricordo di Villa d’Este (“Questo sarà un giardino d’acqua nello stile di Villa d’Este”)(77). Nel progetto di Pirro Ligorio il giardino e le vasche d’acqua concorrono a rappresentare l’immagine di una pianta di palazzo, l’idea appunto di un esterno raffigurato come un interno.
Ma l’aspetto che differenzia nel modo più radicale quest’opera dalle precedenti esperienze, risiede nel ruolo che la natura assume come parte integrante del disegno complessivo, come presenza concreta di natura disegnata, piegata ad una precisa volontà progettuale -non più, dunque, come valore astratto, tutto mentale, di natura libera e incontaminata.
In precedenza, la relazione con il luogo era perseguita attraverso un processo di dematerializzazione dell’oggetto. L’edificio si inseriva nel contesto come una sorta di schermo cavo, teso a cogliere e a lasciar riverberare sulla sua superficie bianca, i caratteri fisici dell’ambiente circostante, attraverso il mutevole gioco della luce. Tale rapporto indiretto con il contesto, aveva in qualche modo guidato la ricerca progettuale meieriana verso la realizzazione di un magico mondo di figure algide e silenti che rifuggivano l’idea della materialità, della gravità e della temporalità.
Quello che rende così particolare, tale lavoro, è la ricerca di un diverso rapporto tra forma naturale e forma costruita, andando a stabilire l’esigenza di una nuova definizione di complementarità.
La scelta del travertino romano, quale materiale base per il rivestimento del complesso, reagisce ad una logica di complementarità che si avvolge all’interno di uno stretto intreccio interpretativo. Il materiale adottato è quello tipico degli edifici antichi dell’area laziale a cui Meier nel progetto allude. Tale decisione mette in luce un particolare livello analogico che viene a stabilirsi tra l’ambito storico-geografico cui è riferibile la collezione e il suo ‘contenitore’. Considerando questo sul piano puramente linguistico, potremmo osservare che l’impiego di un materiale, per così dire ‘storico’, si riverbera -attraverso la forma retorica dell’antonomasia- sull’immagine che esso riveste. Tale effetto è ulteriormente amplificato dalle qualità di consistenza, solidità, permanenza, insite nella pietra.
Il senso della temporalità e durevolezza è peraltro accentuato dalla patina, incorporata come dato stabile della pietra; tale effetto è rimarcato dalla lastra lavorata a spacco, che rende maggiormente porosa (rispetto alla lastra lavorata a taglio) la sua superfice.
Abbiamo così, a conclusione di questa visione, a fronte dell’immagine del tempo che va a stratificarsi sulla pietra, o a cristallizzarsi in essa, come afferma Assunto, la complementarità temporale della natura che ciclicamente si rinnova.
E’ difficile stabilire se tale progetto rappresenti il segno di una fondamentale svolta o solo una splendida ‘deviazione’ rispetto al percorso della ricerca meieriana. Ad una domanda sulle ragioni che hanno indirizzato l’abbandono dei classici bianchi pannelli in acciaio porcellanato (con cui fino ad ora ha rivestito i suoi edifici, lasciando sulle sue opere una firma assolutamente riconoscibile), Meier con il tratto ironico e distaccato che gli è proprio, risponde: “Quello che mi hanno detto i responsabili del Getty è stato, «ci piace il tuo modo di progettare, ma quello che ci aspettiamo per questo luogo è qualcosa di assolutamente diverso»”(78).

Richard Meier Frank Stella. Arte Architettura.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
8 luglio - 30 agosto 1993
Electa, Milano 1993.


Note:
1) H. James, L’Americano, Torino 1981, p.3.
2) Ibidem, pp.3-4.
3) Ibidem, p.4.
4) La mostra “Richard Meier. Architetture 1986-1990”, che ha avuto luogo al Palazzo Reale di Napoli nel 1991, ha inteso mettere in rilievo il peso assunto, nel complesso dell’opera dell’architetto americano, dalla nutrita serie serie di progetti redatti per importanti centri europei.
5) Richard Meier, intervista di I. Flagge, «Lufthansa Bordbuch», giugno 1991.
6) B. Diamonstein, American Architecture Now, New York 1980, p.107.
7) Richard Meier talks in Kioto, intervista di A. Isozaki, «A+U», agosto 1976.
8) R. Meier, Marcel Breuer, «Skyline», ottobre 1981.
9) Richard Meier talks in Kioto, op.cit..
10) B. Diamonstein, American Architecture Now II, New York 1985, p.164.
11) Ibidem, p.164.
12) Ibidem, p.164.
13) Ibidem, p.168.
14) B. Diamonstein, American Architecture Now, op.cit, p.106.
15) Ibidem, p.105.
16) M. Tafuri, Les bijoux indiscrets, in: Five architects in N.Y., Roma 1981, pp. 9-10.
17) Ibidem, p.10.
18) K. Frampton, introduzione a Richard Meier, a cura di G.Pettena, Venezia 1981, p.16.
19) G. Celant, Artmakers, Milano 1984, p.56.
20) Ibidem, p.57.
21) Ibidem, p.57.
22) C. Greenberg, Arte e cultura, Torino 1991, p.21.
23) Ibidem, p.200.
24) R. Meier, On Architecture, lezione tenuta il 19 dicembre 1980 presso la Graduate School of Design della Harward University.
25) R. Meier, On Defining Architecture, in Building for Art, a cura di W.Blaser , Basel 1990, p.30.
26) R. Meier, On Architecture, op.cit..
27) R. Meier, On the Spirit of Architecture, «Architectural Digest», giugno 1981.
28) R. Meier, On Architecture, op.cit..
29) Ibidem.
30) In occasione di un’intervista Meier afferma: “Quando Eisenman ha realizzato House III con le griglie diagonali e ortogonali sovrapposte, ho discusso il problema con lui. Avevo già tentato di fare qualcosa di simile nella Hoffman House ad Easthampton, dove esisteva una relazione sovrapposta tra la diagonale e l’ortogonale. In questo progetto gli spazi comuni erano organizzati sulla diagonale, mentre quelli privati sulla ortogonale. Ma più tardi mi sembrò che non fosse possibile approfondire tale rapporto attraverso le griglie in un edificio piccolo come una casa privata”; C. Jencks, Richard Meier Interviews 1980-1988, in: Richard Meier. Building and Projects 1979-1989, London 1990, p.24.
31) A. L. Huxtable, A Radical New Addition For Mid-America, in «The New York Times», domenica 30 settembre 1979.
32) H. Damisch, La modernità come soglia, in V. Vaudou, Richard Meier , Milano 1986, p.15.
33) Così Meier descrive l’Atheneum, al suo apparire primaverile, quasi un’epifania improvvisa : “In primavera, quando i campi sono inondati dalle acque del fiume, l’edificio costruito su un podio di terra, sembra galleggiare sull’acqua -come un oggetto proveniente da un altro luogo e da un alto tempo- una nave della conoscenza, rivestita di pannelli porcellanati, attraccata lungo le sponde di New Harmony”; in: R. Meier, On Architecture, op.cit..
34) B. Diamonstein, American Architecture Now, op.cit., p.117.
35) H. Criani, Modernità radiosa, in: V.Vaudou, Richard Meier, Milano 1986, p.18.
36) R. Meier, On Architecture, op. cit..
37) Richard Meier, intervista di I. Flagge, op.cit..
38) R. Meier, The Museum of Modern Art at the Villa Strozzi, Florence, in: Building for Art, op.cit., p.44.
39) R. Meier, Richard Meier Architect, vol.I, NewYork 1984, p. 118.
40) G. Kepes, Il linguaggio della visione, Bari 1971, p.81.
41) C. Rowe, Trasparenza: letterale e fenomenica, in La matemati- ca della villa ideale, a cura di P. Berdini, Bologna 1990, p.148.
42) “Il labirinto scuro, intitolato Metamorphosis, all’inaugurazione della Cooper Union Museum, assolse alla funzione di un affascinante e gigantesco gioco anagrammatico: lettere allineate in continua trasformazione a formare muri e soffitti costituiti da parole”; in: L. S. Shapiro, Richad Meier’s Architecture of Purity and Possibility, «Atrforum», November 1977.
43) B. Diamonstein, American Architecture Now, op. cit., p.120.
44) R. Meier, Thoughts on Frank Stella, in: F. Stella, Shards, London-New York 1983, pp.2-3.
45) G. Celant, Artmakers, op. cit., p.9.
46) B. Diamonstein, American Architecture Now, op. cit., p.119.
47) R. Meier, On Architecture, op.cit..
48) R. Meier, Richard Meier Architect, vol.I, op.cit, p.370.
49) R. Meier, On Architecture, op.cit..
50) In questo caso il carattere di casa-museo potrebbe essere assai appropriatamente motivato dal genere di materiali esposti. Osserva infatti Cobb: “Dietro questa straordinaria giustapposizione di frammenti, questa proliferazione di elementi di collegamento, risulta chiaro anche un altro intendimento: la riaffermazione di una scala domestica. E questo non tanto per uniformarsi al contesto, ma per sottolineare la qualità dell’esperienza fornita dal museo, dove vengono raccolti ed esposti oggetti di uso comune. L’esperienza di chi si avvicina, entra e si muove all’interno di questo edificio, dovrà evocare, dovunque egli si trovi, sensazioni di domesticità. Pertanto da un architetto le cui case si sono sempre manifestate come atti pubblici, ora abbiamo un edificio pubblico che aspira, sopra ogni cosa, a suggerire il piacere del privato”; in: H. N. Cobb, Richard Meier’s Museum für Kunsthandwerk, «Express», aprile 1981.
51) Scrive Meier in una nota d’accompagno alla presentazione del progetto: “Costruire in Germania in quel momento, ha rappresentato l’opportunità per realizzare un ponte, un collegamento tra il vecchio e il nuovo, tra passato e presente, tra quello che è stato e quello che potreà essere. Per me è stato un modo di entrare in contatto con le origini della mia famiglia e il significato della partenza dalla Germania. Il progetto mi ha permesso di realizzare un’opera che significativamente rappresenta la continuità con un retaggio culturale inter- rotto”; in: R. Meier, Richard Meier Architect, vol.II , New York 1991, p.111.
52) R. Meier, Richard Meier Architect, II vol., op.cit., p.103.
53) C. Jencks, Richard Meierv Interviews , op.cit., p.24.
54) Intervista con Richard Meier, di A.Gubitosi e F.Izzo, in: Richard Meier. Architetture 1986-1990, Firenze 1991, p.29.
55) Intervista di I. Flagge, op.cit..
56) R. Meier, On the Road Again, in Architecture, Shapping the Future, San Diego, p.29.
57) Dialogue and Fantasy in White, intervista con Richard Meier, «American Arts», settembre 1983.
58) R. Meier, On the Road Again, op. cit., p.29.
59) Ibidem, p.27.
60) Ibidem, pp. 29-30.
61) Ibidem, pp.27-28.
62) P. Goldberger, Ad-Meier-ing, «Vogue» giugno 1983.
63) F. Stella, Postscript, in: Richard Meier Architect, vol.II op.cit., p.409.
64) Ibidem.
65) Circa il rapporto che viene a stabilirsi nei suoi progetti, tra linea retta e curva, Meier osserva: “Ho sempre tentato -forse questo è un aspetto barocco della mia natura- di creare un ordine e poi stabilire una contrapposizione a questo ordine rettilineo. Questa è in realtà la funzione degli elementi curvilinei. In un certo senso sono l’espressione di una gerarchia all’interno del cistruito. Di solito mi piace pensare che ciò che è curvilineo non è solo più fluido in termini di spazio, ma anche nel modo di esprimere la natura di quel particolare spazio inter-no all’edificio. Dove è presente questa giustapposizione di forme curve, contrapposte a quelle rettilinee, quello che è curvo ha sempre un ruolo più importante all’interno dell’edificio”; L. E. Nesbit, Foreword, in: R. Meier, Collages, London 1990, p.10.
66) Il progetto prevede l’ampliamento della Deutsche Bank, che si aggancia ad un complesso laterale esistente, direttamente collegato allo spazio della piazza, tramite un portico relazionato geometricamente alla chiesa e all’Exibition Assembly Building.
67) Intervista con Richard Meier, in: Richard Meier. Architetture 1986-1990, op. cit., p. 29.
68) K. Frampton, Works in Transition, in Richard Meier Architect, vol II, op.cit., p.12.
69) Il nuovo Getty Museum esporrà prevalentemente arte europea dal Medio Evo al Novecento.
70) R. Meier, On the Road Again, op.cit., p.33.
71) C. Jencks, Richard Meier Interviews, op.cit., p. 42.
72) Entrevista, a cura di W. James, «Arquitectura» n. 285, luglio-agosto 1990.
73) “Abbiamo definito il luogo reimboscando e ripiantumando alberi. Stiamo cercando di utilizzare la topografia naturale del luogo, ottenendo due grandi aree pubbliche principali: il museo e i giardini pubblici. Questi ultimi separano il museo dal Center for the History of Arts and the Humanities, con la biblioteca principale e gli archivi, situati nella parte più privata e appartata del complesso”; in: C. Jencks, Richard Meier Interviews, op.cit., p.38.
74) Il visitatore che proviene dalla Sepulveda Avenue, deve lasciare la macchina in un vasto parcheggio ai piedi della collina e procedere poi con una funicolare che in 5 minuti (superando un dislivello di 75 metri) lo porta alla Tram-Station, situata presso la corte d’ingresso.
75) R. Meier, Collages, op.cit., p.12.
76) Ibidem.
77) R. Meier, On the Road Again, op.cit.p.35.
78) The Met Grill, intervista a cura di L. Peterson, «Metropolitan Home», settembre 1986.