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Da Pampus ad Ijburg. Differenti strategie di progettazione urbana in Olanda
Autore: Michele Costanzo
Un aspetto caratteristico che mette in luce il sofferto rapporto con la modernità da parte dei progettisti olandesi lungo l'arco dello scorso secolo, e che contribuisce a definire la particolare fisionomia dell'architettura e dell'urbanistica di questo paese, è il loro sistematico, altalenante avanzare tra innovazione e tradizione, tra cambiamento e continuità. Tra le avventurose fughe in avanti e le successive inversioni di direzione all'indietro, numerosi sono gli esempi che si possono segnalare, a conferma di tale complesso stato d'animo nei confronti del nuovo. Per rimanere in un ambito temporale relativamente recente, specialmente significativa risulta essere la riscoperta, negli anni Settanta, delle realizzazioni della Scuola di Amsterdam. Un recupero da intendersi a un tempo, sia come espressione di 'dissenso', soprattutto nei confronti delle amministrazioni pubbliche[1], rispetto a una certa 'aridità formale' nella realizzazione degli alloggi a carattere sociale e alla resistenza ad accettare la concezione di "città aperta", espressione delle irreversibili trasformazioni avvenute nella struttura organizzativa della società, che come 'fonte d'ispirazione' nella ricerca di nuove immagini da adeguare alla differente sensibilità dei nostri giorni[2] .
«Prima della guerra», osserva Manfred Bock a proposito delle alterne fortune, in ambito olandese, della Scuola di Amsterdam, «l'umanità era finalmente matura per accettare il modernismo, che aveva impiegato nuove tipologie per sviluppare una sintassi visiva che esprimesse esattamente quello che desiderava: un'architettura liberata dal vecchio ordine, aperta agli spazi periferici, leggera e piena di luce. Anche la città si era aperta agli spazi verdi e al traffico. Le strade e gli slarghi erano stati sostituiti da ampie strade e da incroci stradali. L'isolato a corte era un anatema; al suo posto era stata scelta una tipologia di edificio funzionalmente differenziata, con una distribuzione razionale in accordo con la natura, sistemata su un'isola di verde riccamente alberata attorno a cui scorreva il traffico»[3].
Il recupero dei valori estetici, romantico-pittoreschi, che avevano contraddistinto la Scuola di Amsterdam rappresenteranno, tuttavia, anche il segno dell'eclissi della città funzionale, come è tristemente testimoniato dal fallimento di quartieri modello, quali: Geuzeveld, Slotermeer, Buitenveldert, Bijlmermeer.

Ulteriore, eclatante illustrazione di questa impasse pianificatoria è rappresentata dalla proposta di Jacob B. Bakema e Johannes H. van den Broek per il piano Pampus, ad Amsterdam (1965). Una sorta di new-town che sarebbe dovuta sorgere su quattro grandi isole artificiali impiantate nel bacino dell'Ijmeer, non lontane dal centro storico, nel settore est della città, accanto all'area dei vecchi docks.
Uno dei caratteri distintivi del progetto che si proponeva come un nuovo modello di città, era l'integrazione tra abitazione, lavoro, spazi per il tempo libero, servizi, zone commerciali, fisicamente rappresentata da una struttura destinata ai collegamenti, comprendente: trasporto pubblico (su monorotaia), trasporto privato, percorsi ciclabili e pedonali (che si dovevano diramare all'interno del quartiere). Tale articolata 'spina' della mobilità, nell'attraversare centralmente le isole, oltre a congiungerle strettamente tra loro, le collegava in maniera rapida e diretta alla città e al territorio. Tre di esse erano destinate a residenza, la quarta a centro degli affari, con banchine per l'attracco poste lungo i suoi bordi.
Ulteriore elemento di novità della proposta era l'alta densità abitativa, alternativa all'usuale connotazione suburbana delle nuove edificazioni, che portava all'introduzione di megastrutture fino ad allora considerate estranee alla tradizione olandese.
Il progetto era organizzato per clusters, composti di edifici di varia altezza alternati a spazi verdi (il cui slogan era "la campagna che vive nella città"). L'aspetto visivo era il fondamentale parametro che determinava le dimensioni e le gerarchie dei volumi che, in questo modo, seguivano un'estetica di libero raggruppamento di blocchi e lastre, basato sul criterio dell'unità che si ripete.
In questo modo, a tale complesso aggregato spaziale era delegato il compito di abbracciare la molteplicità degli aspetti della vita: un programma ottimistico che metteva in evidenza, tuttavia, i limiti di un'organizzazione tutta basata sulla forma, sulle qualità plastico-relazionali degli elementi che componevano l'insieme.

A conferma della tradizione innovativa e critica, a un tempo, della cultura architettonica olandese, è significativo il fatto che, anche se con intenti progettuali totalmente differenti, la suggestiva ipotesi di mettere in atto un'importante espansione di Amsterdam nelle acque dell'Ijmeer, venga ripresa alla fine degli anni Novanta e, nel 2001, ad essa si sia dato l'avvio realizzativo.
Il progetto di nuova urbanizzazione, redatto da Frits Palmboom e Jaap van den Bout, riguarda (questa volta) una catena di sei isole artificiali. Il masterplan di ogni isola (o loro gruppo) è affidato ad un'équipe di progettisti. Per il primo gruppo di isole, Rieteilanden e Haveneiland, l'incarico verrà conferito ai leader di tre importanti studi olandesi, riuniti sotto la sigla CDS: Felix Claus (di Claus en Kaan), Frits van Dongen (di de Architekten Cie.) e Ton Schaap (di Schaap en Stigter).
Rieteilanden si compone (a sua volta) di tre isole (Groot Rieteiland, Klein Rieteiland, Rieteiland Zuid). Per esse è previsto un insediamento a bassa densit‡, con un'impostazione progettuale a carattere suburbano: le abitazioni sono separate dalle altre attività (commerciali, produttive e di servizio) e le case sui canali, dagli argini morbidi, hanno i giardini che si interrompono a ridosso dell'acqua.
Haveneiland, costituisce il cuore di Ijburg e il suo impianto è del tutto diverso dall'impostazione di Rieteilanden. E' basato su una griglia di percorsi stradali, ad assi ortogonali, che definisce la sagoma e la dimensione di ciascun lotto[4]. Al loro interno prendono forma edifici a blocco, tipologia un tempo trascurata ed ora riproposta in maniera innovativa e studiata in modo da offrire una molteplicità di soluzioni spaziali. Obiettivo esplicito del piano è quello di raggiungere un insediamento in grado di manifestare un livello di vitalità sociale vicino a quello della città storica; e questo, senza imporre forti gerarchie e sulla base di un programma che prevede, per ogni unità edilizia, una stretta mescolanza tra residenza e attività lavorative ed un intenso e vivace rapporto tra abitazione e strada. Quello che il piano impone è solo il rispetto degli allineamenti lungo le strade, un numero stabilito di appartamenti[5] per ogni blocco e una determinata altezza del solaio degli appartamenti al primo livello[6] per poterli, eventualmente, trasformare in uffici o negozi.
Rompono l'invariabilità concettuale del reticolo delle strade: la loro diversa sezione, la posizione diagonale dell'ultimo tratto del lungo viale che percorre longitudinalmente l'isola, la differente ampiezza delle piazze e dei giardini, distribuiti in maniera omogenea su tutta l'area urbanizzata, la diseguale larghezza dei canali che la percorrono nei due sensi.
E' evidente, in questa proposta di nuovo impianto urbano, un diverso indirizzo che i progettisti intendono percorrere, in una direzione opposta rispetto alla visione dominante del decennio precedente, in cui era fortemente condizionante la perdita della fiducia nella possibilità di realizzare una città progettata in grado di riflettere la società che avrebbe dovuto abitarla, viverla. E' questo che indurrà Rem Koolhaas a scrivere, ne La Città generica: «[...] la strada è morta», ossia la città tradizionale ha perduto il suo spirito vitale; e più avanti: «La Città generica sta passando dall'orizzontalità alla verticalità. Il grattacielo appare come la tipologia ultima, definitiva. Ha inghiottito tutto il resto. Può esistere dovunque: in una risaia, nel centro cittadino; non fa più differenza. Le torri non stanno più insieme, sono distanziate in modo da non interferire tra loro. L'ideale è la densità nell'isolamento»[7].
In questo modo, il progetto parte dall'antitesi tra ordine e disordine, tra uniformità e diversità. Si tratta di un gioco di contrapposizioni che, in questo caso, tende a raggiungere una valenza del tutto 'interiorizzata', differentemente dagli eclatanti, scenografici, coinvolgenti esiti realizzativi degli ultimi anni -pensiamo, ad esempio, al piano di West 8 per Borneo-Sporenburg (poco distante, peraltro, da Ijburg)- la cui tematica progettuale prevalente si basa sull'azione di 'contrasto', di 'disturbo', da parte di uno o pi? oggetti architettonici, nei confronti del disegno della trama urbana, per metterne in discussione la logica, attraverso l'eccezionalità della loro dimensione e forma, ed incrinare, così, il suo interno equilibrio.
Ciò che definisce l'essenza di questo piano è, dunque, la ricerca di un diverso modo di riflettere sulla complessità e reale, attraverso un particolare criterio di gestione del progetto, maggiormente sensibile a recepire la volontà dell'utente e a considerare i reali bisogni della società di cui è parte.
«[...] l'incredibile spinta a razionalizzare il processo costruttivo», scrivono Claus, Van Dongen e Schaap nel loro Manifesto for the everyday, «ha così indebolito il progetto che il suo prodotto, la costruzione, sembra incapace di una vita duratura»[8]. Si potrebbe restringere in un trentennio l'ambito temporale in cui, nei Paesi Bassi, le idee progettuali passano dallo stadio della definizione teorica, a quello della realizzazione e, infine, della loro cancellazione, del loro annullamento con la demolizione. Tale continuo cambiamento dei criteri valutativi, unita ad una costante esigenza di modificazione, ha compromesso la credibilità della disciplina progettuale e del suo ruolo nel processo di organizzazione dell'ambiente, dello spazio della vita quotidiana. «In questo dinamico campo di studi, i progettisti vendono le loro soluzioni come medici ambulanti, con l'originalità quale ingrediente chiave: essere differenti è l'unica qualità appetibile. Questa costrittiva ricerca di trasformazione pone una seria minaccia alla disciplina progettuale e alla durata dell'ambiente costruito»[9].
E' così che Claus, Van Dongen e Schaap decidono per Haveneiland, di prendere come punto di riferimento e come gesto di sfida, la pianta di Manhattan, rovesciandone il senso: che Ë quello della densità, della concentrazione e della reciproca estraneità degli edifici (e, conseguentemente, del loro distacco dalla strada). Niente torri, dunque, ma basse costruzuoni a blocco aperte verso l'esterno ad accogliere il flusso energetico della quotidianità della vita fatta di lavoro, di incontri, di relazioni, di solidarietà, d'intimità, di affettività. «Questo processo parte prendendo le mosse dalle iniziative di una grande numero di individualità e gruppi sociali, iniziative la cui energia e ottimismo determinerà la qualità di Haveneiland e Rieteilanden per lungo tempo»[10].

Modernocontemporaneo, Scritti in onore di Ludovico Quaroni a cura di Orazio Carpenzano, Fabrizio Toppetti, Gangemi Editore, Roma 2005





[1]Lo sviluppo edilizio e urbano in Olanda, come è noto, a partire dagli inizi del Novecento fino agli anni Ottanta, è stato gestito direttamente dalle amministrazioni pubbliche.
[2]Da intendersi come il diretto riflesso di un diverso assetto politico, economico, tecnologico, sociale.
[3]Manfred Bock, et al., Michel de Klerk. Bouwmeester en tekenaar van de Amsterdamse School 1884-1923, Rotterdam 1997, p. 9.
[4]Il lato maggiore è di m. 175, quello minore va da m.70 a m. 90.
[5]Per ciascun complesso edilizio sono previste 200 unità abitative.
[6]Pari a m. 3,50 con tre ulteriori livelli ad altezza inferiore
[7]Rem Koolhaas, The Generic City, in: Rem Koolhaas, Bruce Mau, S, M, L, XL, The Monacelli Press, New York 1995, p. 1253.
[8]Felix Claus, Frits van Dongen e Ton Schaap, Manifesto for the everyday, in: Id. (a cura di), Ijburg. Haveneiland and Rietlanden, 010 Publishers, Rotterdam 2001.
[9]Ivi.
[10]Felix Claus, Frits van Dongen e Ton Schaap, Manifesto for the everyday, op. cit..