Ho avuto modo di riflettere sulla tematica del rapporto tra identità e globalizzazione, attraverso la stesura di due miei scritti: Architettura oltre il modernismo, introduzione al testo di Hans Ibelings, Supermodernismo. L'architettura nell'età della globalizzazione; e Architetture come teatro degli sguardi, una riflessione critica su un insieme organico di progetti, realizzati da Vincenzo Giorgi, per alcuni quartieri della periferia sud di Roma. Il mio intento in questa sede sarà, dunque, quello di mettere a confronto gli aspetti concettuali che contraddistinguono il pensiero progettuale nell'epoca della globalizzazione, nonché le sue implicazioni a livello linguistico, con la singolarità degli interventi di Giorgi (per la Magliana, Corviale, Acilia) che hanno la caratteristica di essere legati dal fil rouge rappresentato dall'applicazione dell'art.11 della legge 493 del 1993. I segni evidenti della trasformazione avvenuta nella società contemporanea sono: le mutate condizioni di luogo e identità, la progressiva perdita di senso dell'ambiente costruito, la crescente erosione del significato di spazio. Tale impulso alla trasformazione è trasmesso alla società contemporanea dalla mobilità che, a sua volta, è la causa del distacco, della perdita di interesse nei confronti dello spazio. Lo sviluppo delle strategie della comunicazione, la mondializzazione dell'economia, il processo di innovazione tecnologica sono stati gli elementi che hanno prodotto l'accelerazione di tale processo di modificazione. Il Supermodernismo -utilizzando l'espressione coniata da Ibelings- in questo senso si pone come la manifestazione di un complesso fenomeno di riassetto sociale a scala mondiale denominato globalizzazione: una rivoluzione che determina modalità diverse nelle relazioni umane, come ad esempio, l'esclusione dell'incontro diretto (questione abbondantemente analizzata dal cinema, dalla letteratura e dalle arti visive) che mette in crisi la stessa identità dell'individuo Quello che viene perseguito ora è, piuttosto il senso dell'imprevedibilità, della sorpresa, attraverso le molteplici possibilità della 'contaminazione' le cui modalità espressive più tipiche sono: l'enorme, l'inestetico, la tabula rasa, l'assemblaggio, la replica dell'identico, la mancanza di tessuto connettivo. I codici riduttivi di questa architettura dalla transculturalità, espressione di un sapere fuori da ambiti nazionali, caratterizzata da una pluralità di identità possibili, sembrano condurre ad un impoverimento dell'ambiente urbano. Le grandi città metropolitane, sono sempre meno riconducibili al paese d'appartenenza, piuttosto rappresentano i luoghi fisici in cui le diversità culturali s'incontrano. Si potrebbe osservare che la loro peculiarità risiede proprio nella perdita della loro identità: pensiamo alla realtà disseminata di Los Angeles, o a città quali Tokyo, Singapore, Hong Kong: realtà urbane che non possono più essere identificate tramite categorie quali continuo-discontinuo, ma da quella della frammentarietà. In epoca di trasformazioni genetiche dobbiamo accettare, quasi come inevitabili, forme connettive quali: meticciato, interconnessione, reciprocità. La nuova architettura, dunque, si fa carico di rappresentare questo processo di modificazione tramite la semplificazione della forma e, soprattutto, attraverso una tensione riduzionistica che punta a costruire edifici come solitari mondi chiusi in sé, microcosmi urbani: fenomeno che Rem Koolhaas aveva già individuato nel suo Delirius New York, denominandolo "manhattanism". Tra gli elementi caratteristici di questa nuova maniera di essere dell'oggetto architettonico, si segnala la totale indifferenza rispetto a fondamentali concetti quali quelli di luogo, significato e identità. Gli stessi che, al contrario, avevano caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta e avevano trovato espressione in uno storicismo critico basato sulla citazione e il prelievo formale. Il tema fondamentale che legava la singolarità degli atti, era l'idea della narrazione che agiva come un elemento agglutinante e forniva il senso dell'unità dell'intervento. Rispetto al quadro sinteticamente delineato, la posizione di Giorgi risulta essere, per così dire, 'trasversale' in quanto recupera l'istanza internazionalista dell'architettura contemporanea, considerata come un dato di fatto ineludibile e, nel contempo, tende ad opporsi all'implicito processo di omologazione dei linguaggi. I suoi progetti risultano pervasi da due forti tensioni espressive che manifestano: da un lato la volontà di essere partecipi e rappresentativi, a livello estetico, del senso della 'disgiunzione' che la realtà manifesta esplicitamente; e dall'altro l'esigenza di porsi come interpreti del reale bisogno sociale. Questo lo porterà a non richiudere l'architettura dentro la propria autonomia, ma a riconoscere ad essa la possibilità di una forte contaminazione con l'empirico che diventa la sua 'natura' in senso 'strutturale'. Nel suo fare progettuale, egli procede in maniera sperimentale, senza rinunciare al gusto dello stupore e al piacere della provocazione, che impiega come un irrinunciabile pungolo intellettuale. Quello che contraddistingue il suo lavoro è il rifiuto della nozione di sintesi in favore di quella di: scomposizione, dissociazione, sovrapposizione, giustapposizione, combinazione. Contemporaneamente, egli tiene fortemente presente l'esigenza della salvaguardia del valore del 'luogo', come espressione di un concetto di 'modificazione', inteso come affermazione di un forte impegno civile. Egli punta a trasformare i codici riduttivi imposti all'architettura transculturale, la quale prende forma all'interno di una pluralità di identità possibili, traendo da essa le giuste occasioni per ritrovare quegli stimoli formali e quelle non tradizionali soluzioni spaziali che costituiscono l'aspetto di originalità del suo lavoro. Tale linea d'intervento risulta particolarmente interessante, soprattutto, quando si trova ad operare in ambienti urbani particolarmente impoveriti. La sua inclinazione creativa, pure esprimendo una profonda adesione alla spinta innovativa della progettualità contemporanea, tende a stabilire, altresì, profondi legami con la storia, la tradizione e con tutte quelle valenze che concorrono a determinare la stabilità e l'equilibrio del contesto. Attraverso tale posizione ibrida, egli cerca di scoprire un sentiero transitabile per il proprio linguaggio, omogeneo il più possibile con la nostra cultura e le nostre tradizioni. Gli spazi che configura partono dalla scomposizione della figura per poi puntare ad una sua ricomposizione ad altra scala, in un'incessante oscillazione tra negatività della decomposizione e la positività del risarcimento. La sua maniera progettuale si basa sulla definizione delle masse, sull'articolato profilo delle piante, sull'incastro delle figure e sull'effetto di scollamento delle superfici che ne costituiscono l'involucro; a tutto questo, si aggiunge un gioco dinamico di volumi e di piani che in parte sembra voler alludere alla scomposizione neoplasica nella sua ricerca di uno spazio al di là della figura, e in parte esprimere una tensione del tutto interiorizzata. I volumi contraddistinti da un loro andamento nervoso, appaiono come attraversati da un'energia che tende ad espanderesi nella ricerca di profondi legami con il contesto. L'obiettivo è quello di riuscire ad ottenere l'effetto di una 'continuità' spaziale senza gerarchie, basato sulla rotazione di elementi volumetrici, dislocati mediante l'introduzione di un fitta trama di direttici visive miranti a formare un tessuto di percezioni. Nella sua azione configurativa, egli instaura dei 'traguardi' che determinano i segni fondativi della composizione; si tratta di canali ottici che mettono in correlazione le parti vicine con quelle lontane. L'aspirazione ad una "cristallina complessità" dell'impianto, su cui si fondano tali interventi di recupero urbano, si manifesta nel loro apparire come una sorta di 'frammento', e nel loro essere elementi strettamente integrati in un progetto spaziale più ampio. In questo modo, ognuno di tali oggetti, in quanto soluzione 'parziale', sembra aver interiorizzato il senso di un'attesa, di un ideale completamento in un 'altrove' fuori da sé, che lo spinge a cercare nell'intorno dei possibili punti di continuità. E' l'ipotesi di una "città dei fili", come la città calviniana di Ersilia, dove «per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità rappresentanza»[2].
Intervento al convegno “ Corpi dell’Architettura della Città” a cura di Antonino Terranova, Facoltà di Architettura Valle Giulia, Roma2002 Corpi dell’architettura della città, Palombi Editori, Roma 2004
[1] Intervento al convegno "Corpi dell'Architettura della Città", a cura di Antonino Terranova e organizzato dal DAAC (Dipartimento di Architettura e Analisi della Città), si è svolto a Roma, dal 7 al 9 giugno del corrente anno, presso la Facoltà di Architettura "Valle Giulia". Ai lavori del convegno ho partecipato sviluppando le tematiche di due libri, recentemente pubblicati (Hans Ibelings, Supermodernismo. L'architettura nell'età della globalizzazione; e Michele Costanzo Architetture come teatro degli sguardi, ), in patricolare elaborando un confronto tra i loro due distinti punti di osservazione del reale: il primo si caratterizza per una sua visione internazionalista, percorsa dalle problematiche provenienti dal processo di mondializzazione in atto (dell'economia, della cultura, della società) che sempre più tende a condizionare l'espressione architettonica; il secondo ad una visione di tipo localista, circoscritta ad un'area specificamente determinata, che sembra porsi come una via di fuga dall'indirizzo precedente. [2]Italo Calvino, Le città invisibili, Torino 1972, p. 82.