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La concretezza della fantasia
Autore: Michele Costanzo
Saggi Il libro di Alfonso Giancotti, Tanto al metro quadro, è una riflessione sul fare architettura che egli circoscrive attorno alla propria esperienza, ma se letta all'interno di un'ottica più ampia, essa è anche un'impietosa rappresentazione del modo in cui la disciplina progettuale si rapporta alla realtà contemporanea, restandone fortemente condizionata.
Il quadro che l'autore traccia con un piglio sottilmente ironico, è quello di una società che, per un verso, sembra manifestare indifferenza rispetto al ruolo rappresentativo/organizzativo degli spazi che il progetto architettonico tende per tradizione ad esercitare ed ai valori che custodisce in sé, mentre, per altro verso, appare consapevolmente disposta a subire il fascino della sistematica "provocazione figurativa" della nuova architettura, quella, per intenderci, delle archistar. E tale secondo aspetto ha, come insidioso "effetto di ritorno", quello di assoggettare gli utenti ad una sorta di bombardamento di stimoli visivi, di effetti formali che inducono ad un coinvolgimento emotivo, ad un acritico stupore; salvo poi manifestare, con un moto improvviso -imprevisto quanto, a volte, ingiustificato- un impulso collettivo di ribellione, di rigetto nei confronti di un singolo edificio in sé non particolarmente censurabile, soprattutto rispetto al panorama delle realizzazioni correnti. Com'è il caso della sistemazione museale dell'Ara Pacis, realizzata alcuni anni fa da Richard Meier, ma ancora oggetto di acceso dibattito rispetto alla sua accettazione o meno nel tessuto storico romano; cosa che ha raggiunto, come limite estremo, la proposta della sua demolizione. Un radicale rifiuto, dunque, peraltro appoggiato dal consenso di importanti nomi di architetti e di studiosi dell'arte, la cui ragione profonda potrebbe essere interpretata non tanto come espressione di una reale volontà di cancellazione di una presenza in sé disturbante rispetto ad un "equilibrio" pre-esistente, quanto piuttosto come un moto interiore (represso o inconscio) di insoddisfazione generalizzata per come la città si presenta nella flagranza delle sue contraddizioni. Un rapporto ostile, elaborato da una parte della collettività nei confronti del valore e del senso dell'architettura costruita, della città "come intero fisico" e degli spazi per la vita associata, che prende la forma, in questo caso, della figura retorica della sineddoche per cui una parte vale per il tutto.
Segno, dunque, di un pericoloso distacco dal paesaggio reale e dalle logiche della sua crescita che, come osserva Vezio De Lucia in, Se questa è una città, comincia a prendere forma a partire dall'ultimo dopoguerra, in cui si afferma l'idea di equivalenza tra "espansione urbana" e "sviluppo economico". Tale visione andrà a mettere in moto, con andamento progressivo, un processo speculativo dei suoli, che interesserà il settore edilizio e urbano favorendo, a un tempo, costruttori e proprietari terrieri; e questo, a seguito di una mancanza di controllo partecipativo, di un'incapacità a guardare criticamente la realtà per quello che è nella sua drammatica essenza.

Lo scritto di Giancotti è, altresì, accompagnato da una scelta di suoi lavori che vanno da allestimenti di spazi commerciali ed espositivi, a progetti d'edifici e complessi architettonici: un insieme di opere che tracciano un percorso di ricerca sensibile, sia nei confronti del tema dell'ambiente urbano, che in quello relativo alla definizione strutturale, costruttiva, funzionale dell'oggetto architettonico.
L'autore non si limita alla presentazione delle opere, ma alla loro descrizione all'interno del quadro di un processo ideativo/realizzativo che tiene conto di un insieme di questioni, di tipo ambientale, di ordine economico, di organizzazione di cantiere e di quant'altro.
Il testo raccoglie, inoltre, un interessante insieme di osservazioni, sviluppate con un piglio fortemente critico, riguardanti le difficoltà per la giovane generazione di architetti (a cui Giancotti appartiene) d'inserirsi nel mondo della libera professione.
Tale difficoltà, in una visione più allargata, è anche quella di far uscire la cultura architettonica dal chiuso delle mura dell'università per farla circolare negli spazi del mondo. E' una complessità che risiede nell'essere dell'architettura, nella sua costante aspirazione a conquistare un ruolo centrale nella società: una rappresentatività non solo legata al ciclo economico, ma ad un sentire comunemente condiviso.
La "società di riferimento" che un giovane progettista si trova ad incontrare per portare avanti il proprio lavoro, è un tipo di interlocutore che al momento non riesce o non vuole più distinguere la differenza tra qualità e quantità, preferendo legare ogni valenza del manufatto, come nota l'autore, direttamente al dato quantitativo del suo costo.
A tale processo riduttivo del proprio orizzonte estetico/esistenziale, si deve aggiungere l'effetto del profondo "processo di mutazione" avvenuto in questi ultimi decenni, generato dalla incessante spinta al consumo e dal conseguente dominio della comunicazione in tutte le sue forme. E questa trasformazione, ha imposto una diversa visione del mondo e un diverso modo di percepire quello che quotidianamente avviene; a seguito di ciò, anche l'arte e l'architettura hanno subito una profonda crisi ed elaborato un distacco dalla realtà sociale.
Come osserva Franco La Cecla, gli artisti e gli architetti ormai partono dall'idea di non essere più avanguardia, "ma semplicemente genio sregolato e, allo stesso tempo, trendseekers, cioè non professionisti al servizio della società, ma élite mediatica, produttori di quella cosa di cui oggi è fatto il grande mercato della moda e delle tendenze".
In questa situazione nebbiosa, in cui si riscontra un forte disagio nel ritrovare i parametri fondamentali di riferimento, necessari a ricomporre un nuovo e più giusto tracciato da percorrere, non a caso la Fiera Internazionale del Libro di Torino ha scelto come titolo per l'edizione 2008 "La bellezza salverà il mondo?". Un interrogativo, tratto da L'idiota di Fëdor M. Dostoevskij, per il quale la bellezza è un punto di riferimento fondamentale che bisogna tentare di metabolizzare, un dato con il quale è necessario operare un confronto, un obiettivo con cui è importante misurarsi. Questo, per ciascun individuo, vuol dire operare una metamorfosi spirituale, tentare di raggiungere un livello superiore di conoscenza.
La bellezza è una nozione che sfugge ad ogni definizione, ma nello stesso tempo ha la caratteristica di essere immediatamente riconoscibile quando produce emozione o sorpresa. Essa è l'hegeliano "più" che solo la filosofia, la letteratura, la musica, l'arte ed anche una certa architettura hanno la capacità di esprimere; ma è anche il platonico splendore del vero, che può consentire di leggere, comprendere la realtà in cui la società è immersa, la condizione che contraddistingue il suo presente.

Alfonso Giancotti,Tanto al Metro Quadro, Prospettive, Roma 2008.

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