Architettura oltre il modernismo. Introduzine a: Hans Ibelings, Supermodernism, Castelvecchi, Roma 2001
Autore: Michele Costanzo
A partire dall'inizio degli anni Novanta, cominciano a delinearsi i tratti di una profonda trasformazione riguardo al modo di concepire l'architettura e ai meccanismi della sua realizzazione. Tra gli elementi caratteristici di questa nuova maniera di essere del progetto, che Hans Ibelings chiama 'supermodernismo'[1], si segnala la totale indifferenza rispetto a fondamentali concetti quali quelli di luogo, significato e identità. Durante gli anni Settanta e Ottanta, essi avevano caratterizzato il postmodernismo e il decostruttivismo, che lo studioso olandese considera come ideale ramificazione del movimento precedente, più precisamente «il rovescio, in senso manierista»[2], dei suoi caratteri distintivi. Tale indirizzo, che deve essere inteso come pura categoria critica, corrisponde a un diverso modo di porsi nei confronti della realtà. Con esso viene messo da parte quell'approccio sospeso tra invenzione e memoria, che contrassegna il ventennio precedente, trovando espressione, come è noto, in un articolato processo che prende forma attraverso il metodo del prelievo, della citazione, con esiti che oscillano dal classico al vernacolare, per poi confondersi, mescolarsi con altre forme di tipo astratto, in una caotica combinazione, spesso volutamente perseguita, di materializzazioni storicistiche e frammenti moderni. In questo modo, viene a determinarsi quella frattura tra materia interna dell'organismo e configurazione esterna dell'oggetto, che è uno dei dati caratteristici di questa tendenza progettuale. Il pensiero postmodernista, che si è andato sviluppando in un arco di tempo notevolmente dilatato, ha generato una gamma estremamente ampia e variegata, di risoluzioni teoriche e progettuali. Ibelings vede, nell'esperienza dell'IBA (Internationalen Bauausstellung), realizzato a Berlino tra il 1979 e il 1987 sotto la direzione di Josef Paul Kleihues, emblematicamente rappresentata la sua sintesi e, contemporaneamente, il suo trapasso verso il supermodernismo. Il piano prende a svilupparsi, in una prima fase, sotto l'influenza del pensiero di Aldo Rossi, e del suo libro L'architettura della città (1966), considerato uno dei testi teorici che stanno alla base del pensiero architettonico postmodernista. Nel suo scritto, l'architetto milanese, afferma la necessità di stabilire un equilibrato rapporto con lo spazio urbanizzato al cui interno si consolidano, in maniera stratificata, le tracce di un 'vissuto' recente o lontano. Il progetto, allora, nel relazionarsi all'ambito spaziale destinato ad accoglierlo, nell'entrare in contatto con le permanenze storiche in esso incorporate, mette in essere un processo di tipo rammemorativo come momento di reattività selettiva contro il senso di confusione e di disagio che pervade il mondo, andando a rifugiarsi nella certezza del passato. Gli studi sulla città e l'idea di principio insediativo costituiranno il nucleo di una ricerca che, nel suo sviluppo progressivo, condurrà Rossi alla definizione del concetto di 'luogo' e alla determinazione del suo ruolo come fondamento del progetto. Rispetto a questa concezione che negli anni andrà a sedimentarsi nella coscienza comune, l'iniziativa dell'IBA si pone lungo una soglia estrema, in una posizione di limite. La complessità e la contraddittorietà della sua operazione farà emergere la difficoltà, di tale visione progettuale, ad aderire allo spirito del tempo. E' interessante notare come, proprio nello svolgersi dell'impostazione teorica di questa iniziativa, si vengano a contrapporre due momenti tra loro nettamente distinti. Nel primo, l'azione di Kleihues è interamente tesa a porre un freno alla lenta dissoluzione dell'immagine storica della città che, come egli nota, ha preso inizio con la congestionata fase di riedificazione del primo dopoguerra, attraverso la «irriflessiva diffusione dell'edificio cosiddetto aperto»[3]. Kleihues punta a recuperare il pensiero rossiano, indirizzando lo sviluppo della città sulla base della dialettica tra morfologia urbana e tipologia architettonica. «Indiscusso è il merito di Rossi», egli scrive, «(...) La sua teoria della permanenza e le analisi tipologiche, la sua richiesta di identità culturale e il suo dichiararsi a favore di una "architettura stilisticamente definibile", hanno lasciato tracce nelle discussioni e nelle progettazioni degli anni seguenti e naturalmente anche nelle concezioni urbanistiche, che finirono per essere realizzate nelle zone di nuova costruzione dell'IBA»[4]. Ne risulta che, nello sforzo di conservare la memoria storica della città, egli prenderà in considerazione il suo elemento più concreto che è la traccia del suo antico tessuto; allora, sarà spinto a privilegiare l'edificio a corte, vedendo in esso rappresentato il microcosmo della città, un intreccio di pluralità funzionali e formali. In questo modo, attraverso la riconsiderazione delle componenti della progettazione urbana tradizionale, egli si troverà, implicitamente, a proporre una forma di ridefinizione della "condizione moderna". Nel secondo, Kleihues assume, come tema di fondo del piano, l'idea di "sperimentazione urbana". Da questo momento in poi, essa assurgerà ad elemento di sintesi nello sviluppo della dialettica tra passato e presenta, tra tradizione e moderno. Tale scelta di fondo è all'origine del distacco dalla posizione rossiana; «il concetto del nostro lavoro», egli afferma, «l'idea di una ricostruzione critica della città -in contrasto con la teoria riduttiva di Rossi che sottolinea i rapporti con il passato- è più aperta e più propensa alla sperimentazione; nel senso di un'unità non superficialmente armoniosa, ma dialetticamente strutturata; così dichiariamo di seguire come obbiettivo e metodo ciò che offre contrasti e contraddizioni»[5]. La Kritische Reconstruktion, come l'architetto tedesco definisce tale approccio ricompositivo della città, «tenta non solo di non farci abbandonare rassegnati la consapevolezza della crisi per cercare un nuovo riparo in un mondo intatto bensì, di rafforzare, in opposizione costruttiva con l'unità classica, la singolarità delle parti come parti di una totalità viva»[6]. Per dare corpo a questa iniziativa verranno chiamati a collaborare tutte le forze disponibili in campo internazionale. L'idea di base del programma sarà quella di una esposizione sul modello di una tradizione modernista che, prima e dopo l'ultimo conflitto, aveva promosso la realizzazione del Weissenhof a Stoccarda (1927), del Siemensstadt (1929-30) e dell'Interbau (1957) a Berlino. Tutte queste iniziative sono basate su un confronto linguistico tra personalità emergenti nel mondo dell'architettura: quelle relative agli anni Trenta, perseguono l'idea del rapporto tra due fondamentali tendenze dell'avanguardia mitteleuropea, l'una volta al rigorismo ascetico della nuova oggettività, l'altra indirizzata al recupero di un'architettura d'immagine sulla spinta del mito 'organico'; quella degli anni Cinquanta, che comprende progettisti europei e americani, ricerca nuovi modelli per la ricostruzione di Berlino e punta su una trionfalistica affermazione di continuità nei confronti del Movimento Moderno. Questa seconda parte della vicenda dell'IBA, analogamente, sembra essere percorsa da quello spirito internazionalista caro al modernismo. La radice di tale scelta è da ricercarsi nella decisione di utilizzare il programma ricostruttivo per far convergere la generale attenzione su Berlino consentendole di assumere una posizione di polo del dibattito sul destino della città contemporanea e di campo di sperimentazione sul linguaggio a livello internazionale. L'insieme di queste decisioni contrastanti collocherà l'iniziativa dell'ex capitale tedesca nella singolare posizione di seguire una doppia logica: modernista e postmodernista a un tempo. Tale operazione non ha fatto altro che realizzare una sorta di catalogo al vero, in cemento e mattoni, del postmodernismo; sono stati invitati a realizzare i propri progetti le "firme" più famose che hanno prodotto un insieme eterogeneo di progetti il cui risultato è un'assordante mescolanza di linguaggi. Il lato più discutibile del procedimento risiede proprio nel suo apparire come una 'vetrina' dell'architettura contemporanea, in cui sono rese possibili tutte le variazioni dell'universo postmodernista, in cui il silente riserbo di Grassi finisce col risultare, paradossalmente, equivalente alle loquaci sovrabbondanze formali di Hollein, come avviene all'interno dell'Urban-Villa di Robert Krier. Il senso di straniamento che pervade gli edifici, che li fa apparire come animali esotici imprigionati in uno zoo urbano, è il riflesso di un mutamento del punto di vista prospettico rispetto alla realtà, conseguenza di una trasformazione, peraltro già in atto, all'interno dei meccanismi organizzativi della società, di cui la cultura architettonica ancora non aveva raggiunto la piena consapevolezza e, quindi, non era stata in grado di offrire un'adeguata risposta in senso formale. Si tratta della prima affermazione, in maniera massimamente concentrata, del fenomeno del nomadismo architettonico, per cui le valenze della localizzazione, non trovando più una loro conseguente espressione, trasmettono all'oggetto un'apparenza di neutralità sospesa. Sarà proprio il successo mondiale, osserva Ibelings, a trascinare il «postmodernismo verso quella forma universalista del modernismo a cui si era opposto». Già in passato era avvenuto tale transito internazionale di progettisti. Intorno agli anni Quaranta era iniziato un processo di mondializzazione, anche se prevalentemente in un solo senso: dall'Europa verso gli USA. Ma, differentemente da ciò che possiamo constatare nel tempo presente, questo scambio ha portato ad un innalzamento di livello della cultura architettonica. Prendendo spunto da due progetti newyorchesi, il controverso edificio dell'United Nations (1947-50) di Le Corbusier e il Seagram Building (1957) di Ludwig Mies van der Rohe, Rem Koolhaas in Globalization[7], nota che questa valenza aggiuntiva è dovuto al forte radicamento, da parte della ricerca degli autori, nel loro contesto d'origine, per cui l'effetto del 'trapianto' è riuscito ad incidere positivamente sul loro linguaggio, in modo da mettere in luce aspetti nuovi, non previsti. L'America, aggiunge l'architetto olandese, non sarebbe stata in grado di costruire tali opere senza il contributo intellettuale dei due architetti europei e, d'altra parte, essi non avrebbero potuto realizzarle al di fuori del meccanismo produttivo americano. Il lento percorso della ricerca progettuale verso il superamento del postmodernismo, che prenderà corpo solo all'inizio degli anni Novanta, è visto da alcuni come una sorta di insinuante, quanto inatteso, revival degli ideali del primo modernismo. Non a caso, nel breve scritto introduttivo alla mostra Light Constructions (1995)[8], Glenn D. Lowry, al fine di collocare criticamente la scelta dei 33 progetti presentati, cercherà di sottolineare il filo di continuità ideale che li lega alla celebre esposizione Modern Architecture, International Exhibition (1932)[9], non mancando di evidenziare, per aggiungere un ulteriore elemento di vicinanza tra le due manifestazioni, il fatto che entrambe hanno avuto luogo negli spazi del MoMA. Un fondamentale carattere distintivo della nuova architettura -opposto rispetto a quello che definisce il postmodernismo- è l'assenza di narratività, l'indisponibilità a trasmettere significati impliciti che trascendono le finalità strettamente programmatiche del progetto, il rifiuto a conferire alla costruzione dei valori che possano oltrepassare i limiti della propria essenza. Tuttavia, se nell'edificio non sono più presenti simboli o metafore, questo non vuol dire che sia caduta l'attenzione nei confronti delle valenze della forma. Tra i limitati punti di contatto tra l'architettura supermodernista e quella degli anni tra le due guerre, uno dei più rilevanti è ciò che riguarda il tema della superficie vetrata. Per Ludwig Hilberseimer, questo materiale, come si evince dal suo saggio Glasarchitektur (1929), è fortemente condizionato dalla visione funzionalista. Per l'autore tedesco, scrive Riley, «l'uso del vetro in architettura è finalizzato a scopi igienici ed economici; egli prende in considerazione le sue proprietà formali solo per il fatto che consentono al progettista di mettere in evidenza il sistema strutturale»[10]. Mentre, per l'artista e letterato Paul Scheerbart, la "architettura del vetro" assume un valore puramente simbolico, diventando, piuttosto, la personificazione della perfezione e della purezza. «Se vogliamo portare la cultura a un più alto livello», egli afferma, «siamo costretti bene o male a trasformare la nostra architettura. E questo ci sarà possibile soltanto se elimineremo dagli spazi in cui viviamo il carattere di chiusura. Questo però possiamo farlo solo introducendo l'architettura del vetro, che lascia passare la luce del sole e quella della luna e delle stelle, non soltanto attraverso un paio di finestre, ma anche attraverso il maggior numero possibile di pareti che sono di vetro»[11]. Un importante elemento che caratterizza la superficie vetrata è l'apparato strutturale che la sostiene; la sua valenza estetica viene a determinarsi proprio attraverso il delinearsi dell'interazione tra struttura e materiale trasparente. Il rapporto tra queste due componenti della parete, che costituiscono il tema formale dominante della nuova architettura, ha origini lontane. Basti pensare a una delle icone del secolo XIX, il Crystal Palace di Joseph Paxton (1851). A proposito di questo progetto, bisogna ricordare che, in occasione di una sua conferenza, sarà proprio Paxton a disegnare l'immagine del "tavolo e della tovaglia" (la struttura portante in acciaio: il tavolo; l'involucro di vetro: la tovaglia). Essa mette in risalto l'essenza di questa ricerca, l'attenzione ad evidenziare la componente tecnologica, cercando di esaltarne il fascino. E' interessante notare che la necessità che spinge alla semplificazione formale dell'oggetto architettonico, quasi simmetricamente porta a una complessificazione in senso strutturale. L'high-tech, che in passato era stato giudicato con distacco per l'assenza di una dimensione simbolica, per la sua naturale atopia e per il senso di freddo meccanismo che in qualche modo trasmette, ora è guardato con interesse ed impiegato in modo da incidere sulla struttura formale dell'immagine, concorrendo a determinarne le valenze estetiche. Attraverso un processo di astrazione, essa assume la propria configurazione che si riverbera sul piano di superficie, sviluppandosi sulla base di principi geometrici semplici. Le sofisticate lavorazioni impiegate per la sua realizzazione le conferiscono una neutralità tettonica che la trasforma in segno di sé, facendola assomigliare al proprio simulacro. In questo modo si attua una sorta di dissimulazione della materia; gli elementi utilizzati, che rappresentano la loro natura artificiale, vengono esaltati da sapienti effetti di luce e di colore che li fa apparire puri, levigati, igienici e brillanti. La tettonica ora acquista un ruolo strategico nella determinazione della figura divenendo, a un tempo, ontologica e rappresentativa. I nuovi edifici, prodotti dalla fusione tra sistema comunicativo e struttura urbana, nel loro icastico configurarsi come interventi caricati di forte rappresentatività, contemporaneamente, sembrano aver perduto un codice di riferimento che conferisca loro il senso della necessità di appartenenza ad un genere, ad un contesto. Tali 'presenze' architettoniche sorte per spazi senza luogo, andranno a loro volta a costituire una differente identità di luogo, una nuova qualità di spazio, un diverso concetto di estetica. L'indirizzo supermodernista punta a una nuova configurazione formale dell'oggetto; attraverso una interna urgenza semplificatrice, che predilige volumi composti da geometrie primarie, da superfici uniformi, neutre, traslucide; per questa ragione sono stati definiti rectangular volumes. Della lunga schiera di opere prodotte, rappresentative del nuovo indirizzo, riteniamo utile indicare alcuni esempi (in gran parte inclusi nel saggio di Ibelings) che potremmo considerare come delle figure-simbolo del supermodernismo; si tratta di opere molto note, comparse sulle più importanti riviste internazionali, particolarmente significative soprattutto per l'incisività e la ricchezza inventiva con cui l'idea progettuale è stata tradotta in immagine: la Torre dei Venti di Toyo Ito, a Yokohama (1987-1994); la Goetz Collection di Jacques Herzog & Pierre de Meuron, a Monaco (1989-92); la Bibliothèque Nationale de France di Dominique Perrault, a Parigi (1989-96); la Glass Video Gallery di Bernard Tschumi, a Groningen (1990); la Fondation Cartier di Jean Nouvel, a Parigi (1991-94); la Kunsthaus di Peter Zumthor, a Bregenz (1991-96). Il linguaggio che comunemente viene impiegato per queste architetture è estremamente scarno e diretto. Quello che caratterizza la figura è la capacità di assorbire in sé gli elementi che la costituiscono, attraverso tale processo viene a determinarsi un universo figurativo che mette in luce una nuova libertà grammaticale e sintattica. L'atteggiamento esclusivista, riguardo alle scelte tecnologiche o relative ai materiali, ha il fine di rendere l'oggetto alla vista: leggero, fragile, transitorio. La capacità del materiale di poter trasparire è, altresì, motivato dal particolare indirizzo della sua ricerca estetica e spaziale; il suo punto focale risiede nella sottile elaborazione dell'effetto di permeabilità visiva dell'involucro dell'edificio. Tale questione ha dei punti di contatto con l'interpretazione psicologico-percettiva che ne dà Colin Rowe[12]: la possibilità, da parte del fruitore, di poter vedere ciò che sta al di là di quella barriera visiva che intercetta il suo sguardo. A tale proposito, Riley ricorda la metafora di Jean Starobinski, il "Poppaea's Veil"[13] dove il concetto di trasparenza è rappresentato dal velo attraverso cui Poppea si cela allo sguardo degli astanti, non per nascondersi, ma per stimolare il loro desiderio. La trasposizione, in campo architettonico, di questa concezione avviene attraverso l'intersezione di due opposte volontà: quella che si sforza di percepire ciò che si trova oltre la parete e quella che cerca di impedire il compiersi di tale azione. L'illusione del reale risulta essere l'essenza di ciò che la nuova idea di superficie intende perseguire: da un lato propone la trasparenza, alimentata dalle caratteristiche fisiche del materiale che la costituisce, mentre dall'altro esprime l'incomunicabilità, attraverso il congegno delle barriere che inibiscono la vista, attraverso la cesura che stabilisce tra interno ed esterno. Tale modo di procedere è il segno di un progressivo ripiegamento dell'organismo in sé stesso, che porta ad esaltare aspetti di individualità dell'oggetto. E' il segno sintomatico di una svolta da cui discenderà una serie di scelte che andranno a determinare una nuova concezione della spazialità architettonica. Il progressivo concentrarsi dell'attenzione sul valore dell'involucro, dell'affermarsi della parete come entità progettuale autonoma, come soggetto della composizione, il suo insinuante interporsi nella dialettica tra spazio interno e spazio esterno, porterà alla messa in crisi della "indissolubilità" del loro rapporto che, come afferma Cesare Brandi, determina il passaggio «da attributo dell'oggetto a struttura della forma»[14]. In questo modo, nell'impossibilità a portarne avanti la dialettica verrà a svilupparsi un confronto tra spazio esplicito e spazio implicito. Nella metropoli contemporanea, afferma Daniela Colafranceschi, è il proliferare di volumi edilizi che «affidano appartenenza ai luoghi e significato soprattutto al loro 'involucro' come elemento autonomo dalla spazialità interna dell'edificio e dal contesto urbano in cui come 'frammenti', meteore di altre galassie, si collocano. Con essi, mentre si registra la perdita comunicativa dei temi assegnati tradizionalmente dall'architettura al rivestimento esterno degli edifici, emerge come maniera di significare, quella per immagini 'parlanti', per figure grafiche, la cui realizzazione è incalzata dai business tecnologici e multimediali»[15]. L'oggetto, in questo modo, si fa freddo, inorganico, disponibile a modificarsi divenendo supporto per immagini esterne a se stesso, appartenenti al circuito della comunicazione, come a partire dagli anni Settanta aveva prospettato Robert Venturi[16] in numerosi scritti e progetti, al fine di delineare il senso profondo di un nuovo modo di essere dell'architettura. Più recentemente, l'ipotesi che la costruzione possa perdere o ridurre le sue valenze estetiche, magari amplificando quelle comunicative, attrezzando la superficie esterna al fine di trasmette immagini o messaggi multimediali, è stata presa in esame da Koolhaas, con il suo Centro d'arte e tecnica della comunicazione a Karlsruhe (19989-92), in cui l'involucro, come una maschera, non fa che sviluppare un gioco performativo di pure immagini in cui sembra dissolversi la plasticità del costruire, e da Jean Nouvel, con il suo Mediapark per la città di Colonia (1991), un complesso per uffici le cui superfici esterne sono scremi, su cui ogni affittuario afferma la propria presenza, la propria identità, proiettando marchi, logo, segni grafici, foto, che cambiano con l'avvicendarsi degli occupanti nel complesso. Il volume diviene, così, puro emblema e schermo per sempre nuove immagini. Attraverso il suo saggio, Ibelings intende porre in evidenza le espressioni di una società che cambia, cercando di individuare i molteplici fenomeni che caratterizzano tale processo. Il suo scritto prende le mosse dalla presa di coscienza delle mutate condizioni di luogo e identità, della progressiva perdita di senso dell'ambiente costruito, della crescente erosione del significato di spazio che, prese nel loro insiene, si riflettono nella tematica dell'atopia, dell'indipendenza dal contesto. Per questa ragione, lo studioso olandese, ritiene di dover considerare, come fondamentale punto di riferimento, il fortunato saggio di Marc Augé, Nonluoghi. Nel suo libro l'antropologo francese prende in considerazione ambiti del tutto particolari che si manifestano ad una scala diversa da quella dell'uomo e tendono, per loro natura, a rimanere indeterminati; si tratta degli: aeroporti, centri commerciali, grandi alberghi. Quello che impone, alla società contemporanea, tale trasformazione, egli afferma, è la mobilità che, a sua volta, è la causa della disaffezione, della perdita di interesse nei confronti dello spazio. Il supermodernismo è il frutto di un complesso fenomeno di riassetto sociale a scala mondiale denominato globalizzazione: una 'rivoluzione silenziosa', che determina modalità diverse nelle relazioni umane, come l'esclusione dell'incontro diretto (questione abbondantemente analizzata dal cinema, dalla letteratura e dalle arti visive), mettendo in crisi l'identità individuale. La nostra epoca, afferma Augé, risulta «caratterizzata da una accelerazione dei fattori costitutivi della modernità, più che dal superamento, dalla fine o dalla perversione di tali fattori. L'idea di postmodernità, soprattutto nell'utilizzo fattone dagli etnologi americani, rinvia a una sorta di esplosione culturale che finisce per annullare i caratteri della modernità. Secondo me, invece, la nostra realtà è al contempo più semplice e più complessa, visto che nasce proprio dall'accelerazione delle modalità della modernità, solo tenendo conto delle quali diventa possibile comprendere una situazione in cui coesistono tendenze contraddittorie come -per esempio- la globalizzazione e il ritorno dei particolarismi, due aspetti del medesimo fenomeno surdeterminato. Proprio la nozione di surmodernità è all'origine di alcuni studi che ho fatto in ambito spaziale, dove ho introdotto le categorie di luogo e non-luogo»[17]. Lo sviluppo delle strategie della comunicazione la mondializzazione dell'economia, il processo di innovazione tecnologica sono, presi nel loro insieme, l'elemento scatenante, la causa dell'accelerazione del processo di modificazione. In questa chiave di lettura, il supermodernismo rappresenta la riassunzione della visione internazionalista, ma attraverso un dispositivo operativo completamente nuovo. Quello che viene ricercato è l'idea di imprevedibilità (connesso ad un indefinibile senso dello stupore), rappresentata dalle possibilità di 'contaminazione' le cui modalità più caratteristiche sono: l'enorme, l'inestetico, la tabula rasa, l'assemblaggio, la replica dell'identico, il legame a un contesto, la mancanza di un tessuto connettivo. I codici riduttivi imposti all'architettura dalla transculturalità, espressione di una cultura fuori dai confini nazionali caratterizzata all'interno di una pluralità di identità possibili, conducono ad un impoverimento dell'ambiente urbano. Le grandi città metropolitane, sono sempre meno riferibili al paese d'appartenenza e rappresentano i luoghi fisici in cui la diversità culturale s'incontra; si potrebbe osservare che la loro identità sta proprio nella loro perdita di identità. Se per Charles Jencks questa sorta di 'deserto controllato' può rispecchiare la realtà disseminata di Los Angeles, che egli chiama Heteropolis, altre città, tra cui Tokyo, Singapore Hong Kong, dove non sussistono più le categorie di continuo-discontinuo, ma quelle della frammentarietà, possono essere considerare tra le realtà urbane che corrispondono a questa spazialità discontinua. In epoca di trasformazioni genetiche dobbiamo accettare quasi come inevitabili forme connettive quali: meticciato, interconnessione, reciprocità. Sulla spinta di tale corrente, la nuova architettura si fa carico di rappresentare tale processo trasformativo, attraverso la semplificazione della forma, la tensione riduzionistica, che punta a costruire edifici come solitari mondi senza identità, in cui l'oggetto si chiude in sé per diventare microcosmo urbano.
[1] Si è preferito tradurre il termine inglese supermodernism (che dà il titolo al volume di Ibelings) con supermodernismo, piuttosto che con surmodernità, derivante dal francese surmodernité, espressione impiegata da Marc Augé nel suo libro Non-lieux, a cui Ibelings fa esplicito riferimento. M. Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano 1993. [2] Aggiungendo inoltre che, pur ponendo tali caratteri «in una diversa prospettiva, nondimeno, li riconosce come fondamentali». [3] AA.VV., Josef Paul Kleihues, Dublin 1983, p. 11. [4] J. P. Kleihues, Luoghi della contraddizione e ricostruzione critica della città, catalogo della mostra "Berlino. L'IBA e l'architettura del XX secolo", Roma 1998, p. 17. [5] Ivi. [6] Ibidem, p. 21. [7] R. Koolhaas, Globalization, in: S,M,L,XL, New York 1995. [8] La mostra Light Construction, curata da Terence Riley, ha avuto luogo al MoMA nel settembre 1995. [9] La mostra Modern Architecture: International Exhibition, curata da Henry-Russel Hitchcock e Philip Johnson ha avuto luogo al MoMA nel febbraio del 1932. [10] T. Riley (a cura di), Light Construction, catalogo della mostra, New York 1995. [11] P. Scheerbart, Architettura del vetro, in: U. Conrads, Manifesti e programmi per l'architettura del XX secolo, Firenze 1970, p. 27. Bisogna notare che la visione positiva che Scheerbart dà del vetro come nuovo materiale per una nuova architettura, non è da tutti condivisa. In una ideale risposta che Adolf Behne dà al suo testo, pubblicata sul primo numero di «Frühlicht», quegli ideali di luce, purezza e benessere che Scheerbart vedeva rappresentati dal materiale, vengono relegati nell'immaginario dominio dell'impossibile. [12] C. Rowe e R. Slutzky, Trasparenza: letterale e fenomenica, in: C. Rowe, La matematica della villa ideale e altri scritti, Bologna 1990. [13] T. Riley riporta nel suo scritto Light Construction, op. cit.. [14] C. Brandi, Elicona. Arcadio o della scultura. Eliante o dell'architettura, Torino 1956, p. 189. [15] D. Colafranceschi, Architettura in superficie, Roma 1995, p. 13. [16] E' interessante ricordare, come il suo pensiero abbia già fornito stimolanti indicazioni alla ricerca postmodernista e decostruttivista. [17] F. Gambaro, Intervista a Marc Augé, «la Rivista dei Libri» n. 5, maggio 1999.