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E.N. Rogers e il rapporto tra nuovo e antico. Opere e scritti dal 1933 al 1940
Rivista Rassegna di architettura e urbanistica N° 115/116
di gennaio agosto, 2005
Autore: Michele Costanzo
Articoli L'esigenza da parte dei giovani architetti 'razionalisti' italiani nel periodo tra le due guerre, di individuare "un nuovo ruolo" e un "nuovo linguaggio", come corrispettivo degli obiettivi forti che la società di quegli anni intendeva perseguire, pur manifestando esiti in sé non chiaramente definiti risultava, tuttavia, estremamente ricca di fermenti intellettuali. «E' molto difficile dire che cosa vi fosse di valido nel movimento razionalista», ricorda Adalberto Libera, «Noi tutti abbiamo scritto degli articoli, abbiamo detto alcune cose, ma io penso che le cose importanti siano quelle che non abbiamo detto e che, forse appena oggi riusciamo a capire. Di profondamente vero c'era proprio questo modo di accettare la realtà, cioè di credere nel mondo in cui viviamo e nella sua bellezza, di far nascere le cose dal di dentro, poi accettando la forma come veniva» .
Tale spinta ad individuare una specifica connotazione in campo architettonico e ad operare una più precisa definizione del quadro operativo per via delle molteplici posizioni assunte dalle forze in gioco, porterà drammaticamente ad uno stato di profonda incertezza sulle scelte da perseguire, e ad un proliferare di idee diversamente orientate, come risulta in special modo dai dibattiti sulla conservazione del patrimonio architettonico, dai criteri di sviluppo del rapporto tra preesistenze e nuovo, e dalle rare ipotesi di pianificazione di insediamenti di origine storica.
Tale quadro disgregato è frutto del differente valore e significato che ciascuno dei protagonisti dà al tema della storia (e a quello della tradizione, ad essa connesso, che manifesterà una sua particolare persistenza nella cultura italiana ), e delle diverse posizioni critico-interpretative assunte come guida all'organizzazione degli interventi nel concreto.
Tutto questo risulta essere, in parte, il riflesso del carattere tendenzialmente 'umanistico' della cultura italiana, della grande influenza delle teorizzazioni crociane sull'arte, e della profonda convinzione che, per cultura (quella borghese in contrapposizione alla popolare) si debba sempre intendere l'espressione individuale della fantasia e dell'intelletto, libera dai pesanti vincoli delle contraddizioni della realtà (anche se a questa deve essere sempre tesa).
In tale contesto, comincia a prendere forma, in senso operativo, la questione dei centri storici (e questo, non solo in ambito nazionale), anche se le proposte, o gli interventi che seguiranno, non risultano privi di incertezza, soprattutto di ordine teorico. In questa difficile fase, l'obiettivo (peraltro non raggiunto) a cui tende la cultura architettonica è quello di approdare ad una soglia di ordine concettuale/metodologico in grado di indicare le risposte atte a regolare la spinosa dialettica tra città esistente e nuovo sviluppo urbano.
Lodovico Barbiano di Belgiojoso, in occasione di un non lontano convegno bolognese, traccerà una sua incisiva immagine del dibattito culturale degli anni Venti-Trenta: «L'esperienza razionalista è stata caratterizzata dalla ben nota esigenza di affermare nuove idee, sia sul piano di un'urbanistica svincolata dai modi di crescita tradizionali della città pre-industriale, sia rivolta alla ricerca di tipologie abitative rispondenti ai nuovi bisogni. Oltre ai noti esempi, sia quelli rimasti a livello di progetto come il "Plan Voisin" di Le Corbusier per Parigi, sia quelli realizzati nel periodo d'oro della Germania del primo dopoguerra nelle Siedlungen e nelle operazioni, proposte od eseguite, di rinnovo dei centri urbani, aveva posto l'accento sull'esigenza di creare nuovi ambienti di vita con una forte carica di "igienismo sociale", considerando negativa la permanenza delle popolazioni nei "taudits", nei tuguri. La posizione lecorbusieriana, che contrapponeva in urbanistica la "chirurgia" alla "medicina" insieme al mito della "Ville radieuse" escludevano, nella pratica, un interesse per il risanamento conservativo. In Italia tutta la nostra generazione di architetti ne fu influenzata e le proposte del periodo fra le due guerre, dal nostro piano per Aosta, alla Milano Verde del gruppo Pagano, riflettono direttamente quell'ideologia.
Inoltre, il ventennio fra le due guerre ha visto in Italia il piccone demolitore protagonista delle trasformazioni urbane soprattutto a Roma, e non ha risparmiato nemmeno i centri minori, trovando dei casi corrispondenti in Europa, per esempio, nelle trasformazioni operate dal regime nazista nelle città tedesche e, successivamente, nel rinnovo urbano promosso dalla retorica stalinista nella capitale sovietica.
La negazione dell'interesse storico-ambientale in quel periodo ha avuto un potente alleato nella macchina della speculazione edilizia, ma evidentemente non soltanto in questa» .
Un distacco dalla storia, come sottolinea l'architetto, che tende 'visceralmente' a farsi strada in quegli anni, trovando appoggio, da un lato, nell'idealismo giovannoniano che accetta di interpretare le esigenze di ordine simbolico del regime, giustificando l'apertura di vie e visuali monumentali erroneamente illudendosi di conservare l'autonomia e la libertà della ricerca; e dall'altro, nella contraddittoria esaltazione dei valori irrazionalisti ed eversivi dell'arte di derivazione futurista, nel tentativo di affermazione di un radicale rinnovamento del paesaggio urbano, che porterà a proposte di cancellazione degli antichi tessuti.
Il Piano regolatore della Valle d'Aosta che Belgioioso ricorda, rappresenta per BBPR una significativa testimonianza di un percorso di ricerca contrassegnato da un'importante sequenza di opere tutte indirizzate sullo specifico rapporto tra antico e nuovo. Tale esperienza si concluderà con l'avvento del conflitto per poi essere ripresa, nel dopoguerra, e indirizzata secondo una diversa angolazione, pur mantenendo sempre forti connessioni col patrimonio di idee elaborato durante la precedente fase di esperienze. Di tale nucleo di lavori fanno parte nell'ordine: il Piano regolatore di Pavia (1933), l'ampliamento di Casa Ferrario a Milano (1934), il progetto per una "casa qualunque" a Milano (1934), Villa Venosta a Gornate Olona, Varese (1936), il Piano regolatore della Valle d'Aosta (1936), il progetto per un complesso scolastico nel centro di Robbio Lomellina, Pavia (1939), il restauro dei chiostri di San Simpliciano a Milano (1940).
Si potrebbe osservare che in questa difficile fase d'avvio i diversi progetti rappresentino delle occasioni, in sé distinte, di affrontare l'articolata questione del rapporto con il preesistente.
Nella complessivo apporto di idee del gruppo, risulta assai difficile definire il singolo contributo di Rogers come degli altri componenti; e questo, per un rapporto di complementarità delle loro diverse personalità (come essi stessi riconoscono) e, soprattutto, per una scelta 'ideologica' di rinuncia a porre in evidenza le singole individualità per lasciar prevalere, piuttosto, un'immagine unitaria d'assieme. «Non so pensare al mio passato», scrive Rogers, «né alle ore liete, né alle ore tristi, né ai momenti illuminati, né ai più oscuri e confusi, se non come a una realtà che, tutt'insieme, m'appartiene, s'identifica con la mia presente, e tuttavia mutevole, realtà. Giangio, Lodo, Aurel ed io eravamo quattro ragazzi, quando decidemmo di lavorare insieme» . E più avanti aggiunge: «Noi eravamo ormai attivi nella Resistenza e il nostro studio [...] era diventato uno dei tanti luoghi di convegno dei clandestini». Dopo la guerra, morto Giangio Banfi a Mathausen, i compagni rimangono in tre. «Il nostro quartetto dovette educarsi alla concertazione di un trio: dapprima non ci eravamo accorti che il vuoto lasciato dall'amico non poteva essere riempito col solo fatto di sostituirlo, lavorando anche per lui, e ci vollero anni perché all'interno dei nostri rapporti si ristabilisse una nuova armonia, risultato della trasformazione avvenuta in ciascuno dei superstiti» .
Questa visione, nel tempo, andrà attenuandosi nell'attività di ciascuno in campo teorico, attraverso: scritti, conferenze, attività universitaria, nonché l'impegno nella direzione di alcune importanti riviste. La presenza cospicua di tali significative 'tracce' renderà possibile, senza contraddire una delle più sentite scelte fondative del gruppo, l'individuazione di alcuni personali apporti di idee, su specifiche tematiche. Come, in questo caso, la visione del rapporto tra antico e nuovo da parte di Rogers: una complessa riflessione teorica documentata dai suoi numerosi scritti.

Il Piano regolatore di Pavia . Il progetto rappresenta per BBPR, a un tempo, l'opera in cui il gruppo trova modo di stabilire un primo impegnativo confronto con la realtà e l'occasione di sperimentare nel concreto le ragioni del loro sodalizio, nato nelle aule del Politecnico milanese. «[...] ci laureammo tutti nel 1932», ricorda Belgioioso, «A Pavia, durante il periodo di leva, nel 1933 con Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi (Giangio) Banfi, ed Enrico (Aurel) Peressutti lavorammo al progetto del piano regolatore della città con la collaborazione dell'ingegner Ciocca. Ci riunivamo nel grande stanzone della caserma Menabrea, attorno al tavolo, curvi a disegnare, con permesso speciale del colonnello Luigi Grossa. Rivedo le nostre teste contro la luce del tramonto che penetrava dai finestroni, poi i nostri visi illuminati violentemente dalla lampada sul tavolo, a notte fatta. Ancora una notte di lavoro sulle grandi tavole del piano di Pavia, due metri per quattro: sul fondo di carta nera ciascuno di noi tracciava righe con la tempera nel tiralinee. Alle due crollo: "Ernesto, vado a dormire sotto il tavolo, mi svegliate con un calcio fra un paio d'ore".
Ernesto era di noi quattro l'unico ancora non militare, entrava usciva dalla caserma con un permesso per tenere i contatti con chi lavorava fuori. Aurel, Giangio e io, allievi ufficiali alla scuola del Genio di Pavia, ogni volta che si entrava o si usciva, avevamo un gran da fare a infilarci e sfilarci la baionetta dalla cintura, e non potevamo toglierci la giacca neanche per disegnare. L'ufficiale di picchetto veniva a visitarci di tanto in tanto, benevolmente, lieto di osservare il nostro lavoro, le mani appoggiate sull'elsa della sciabola. Al levar del sole era tutto finito: tre erano addormentati accucciati sul pavimento mentre io provvedevo a far trasportare giù nel cortile dai piantoni le tavole che alle nove dovevano essere consegnate in Municipio.
Così avevamo concluso il primo grosso lavoro impegnativo, cimentandoci in una collaborazione che, iniziata in quattro, doveva durare per ciascuno tutta la vita. Posso dire che Giangio mi ha insegnato a lavorare, Aurel a immaginare ed Ernesto a pensare» .
Il piano si compone di due interventi distinti. Il progetto per la nuova Pavia che si sviluppa in un'area adiacente la città storica, lungo l'asse viario Genova-Milano; l'impianto si compone di un insieme di reticoli geometrici che disegnano gli assi viari e le aree edificabili e non, secondo le diverse destinazioni funzionali. Il 'ridisegno' del centro storico, concepito sulla base di un "piano di allineamento", prevede la demolizione degli isolati insalubri con successivo arretramento delle fronti. Tutto questo per mettere in maggiore evidenza i monumenti, inseriti in appositi percorsi culturali che li valorizzano. Tra le due distinte aree è previsto l'inserto di una fascia a sviluppo segmentato di città giardino.
Ulteriore caratteristica del progetto è quella di essere espressione dell'ipotesi di "città corporativa" . I cui punti salienti sono: la funzione che ogni città dovrebbe assumere nel quadro di un disegno ordinatore a scala nazionale, ed il freno all'inurbamento, con possibili alternative d'intervento, tra cui l'opportunità di una «legge di ripartizione della popolazione». Il quesito che essi si pongono è se, per attuare la città corporativa ideale siano preferibili «cento città di diecimila abitanti o dieci di centomila o una di un milione», in quanto, essi aggiungono, «il popolo cerca oggi non soltanto la propria elevazione materiale, ma anche e più la propria elevazione spirituale» . E per raggiungere tale obiettivo non bisogna «aggrapparsi al passato per amore di quiete né l'adeguarsi in sogni di felicità futura ricercata nei dogmi e nelle formule miracolistiche», è necessario «il tramutarsi e il rinnovarsi continuo, il lottare contro le difficoltà non mai vinte e la realtà non mai soggiogata, e il sacrificio della propria attività individuale nell'immenso crogiolo delle attività della Nazione» .
Non condividendo tale visione, Edoardo Persico, criticherà severamente la proposta: «Si potrebbe dire che il piano regolatore di Pavia proposto dai sette architetti milanesi», egli afferma, «più che l'esempio di una città "chiusa", è quello di una città comunista, cellula della "città mondiale"; e la partita sarebbe chiusa. Ma bisogna andare fino in fondo per un'altra strada. [...]. Una città corporativa presuppone un nuovo ideale dello Stato, un nuovo Stato non negli attributi esterni, ma nel suo spirito, nel suo processo creatore. Perché lo Stato possa realizzarsi in tutta la sua portata è indispensabile la maturità di tutta la nazione, la coscienza di tutti gl'italiani: che sia cioè un movimento non antistorico, e fondato su una logica stringente. E' un'esigenza tutta etica posta nell'anima del popolo che deve farsi nazione, deve riconoscersi nazione organizzata, cioè Stato. Lo Stato è, così, la fase ultima del processo. Così deve concludere uno spirito geometrico. La città corporativa non può essere un'improvvisazione di ideologi a vuoto, dev'essere il risultato di un'esperienza concretamente "nuova" dell'architettura italiana. All'infuori di questo limite non c'è che la formula arbitraria: architettura arte di Stato. Il mito della "disciplina" russa» .
Il dissenso espresso da Persico nell'impostazione ideale del progetto, è interessante osservare, non fa che riflettere una certa contrapposizione che si andrà sempre più delineando, in questi anni, tra la rivista «Casabella» diretta da Giuseppe Pagano, caratterizzata da un interesse per le ragioni sociali dell'architettura e «Quadrante» diretta da Piero Maria Bardi e Massimo Bontempelli (1933-1936) che, al contrario, era tesa a calamitare nelle sue pagine molteplici apporti culturali, quali: arti visive, letteratura, musica, oltre all’architettura. Per di più, la presenza attiva di alcuni artisti facenti parte del gruppo del «Milione» (tra cui spicca la figura di Carlo Belli, autore di Kn ) tendeva ad indirizzare l'interesse culturale verso le tematiche "puriste" dell'astrazione. «Con Pagano la nostra amicizia si mantenne e crebbe negli anni costante e affettuosa», ricorda Rogers, «mentre la sua stima ci fu vigile sprone anche se -a differenza di altri colleghi- non ci siamo mai associati direttamente a lui per qualche progetto.
Una delle difficoltà, quando ci si affaccia alla vita pubblica da giovani, è che si ereditano, inconsapevolmente, situazioni con attrazioni, ripulse e riserve preordinate da altri; noi fummo immessi nell'orbita della rivista Quadrante pur senza accedere a certe posizioni personali che suscitavano attriti tra i più anziani di noi» .
Ampliamento della Casa Ferrario, in via Crocifisso a Milano. L'intervento consiste nella realizzazione di un piccolo volume di due piani nel giardino di una vecchia villa signorile. Il corpo è posto nella zona d'ingresso al giardino; a piano terra è si trova il soggiorno, e superiormente da due camere da letto con un piccolo bagno, raggiungibili tramite una scala a chiocciola.
L'edificio preesistente e il nuovo, pur essendo visivamente separati da un'area verde alberata (pur di dimensioni contenute), in realtà sono fisicamente congiunti da un lungo portico, che funge da 'terzo elemento mediatore', come per la "fascia di città giardino a sviluppo segmentato" del piano di Pavia che, contemporaneamente, 'unisce' e 'distingue' due entità ritenute concettualmente inconciliabili. L'edificio è stato distrutto dai bombardamenti dell'ultima guerra.
Progetto per una casa "qualunque" in via Vallazze a Milano. Si tratta di una casa tipo da inserire nel contesto della città esistente. La considerazione da cui partono gli architetti, e che conferisce al loro progetto un valore polemico e dimostrativo a un tempo, è l'assenza «nell'edilizia corrente contemporanea» di edifici in grado di rappresentare «degnamente la nostra generazione» .
Per realizzare tale obiettivo, scrive Banfi, «[...] non è necessario il palazzo rappresentativo, l'edificio pubblico; una casa 'qualunque' sa esprimere il contenuto di un'epoca» . Del resto, prosegue l'autore, nel passato questo è sempre avvenuto. Allora, se si vogliono applicare correttamente i «principi sociali del fascismo» sarà necessario arrestare lo sviluppo generalizzato delle «cosiddette case di speculazione [...] e quelle finte signorili (finti palazzi, di abitazioni a quattro locali) [che] sono gli estremi della serie» .
Si tratta di una duplice critica, quella che l'autore muove alla città esistente, sia di tipo estetico, che sociale. «[...] dalla menzogna non può nascere verità, un 'contenuto' trova nella purezza della realizzazione formale la sua unica espressione adeguata» .
La casa 'qualunque', stante tale premessa, intende porsi come un 'seme', da piantare (e far germogliare) nei 'campi arati' delle strade cittadine, ed anche come un simbolo, un'immagine esemplare del moderno; non a caso, essa corrisponde a ciò che scrive Massimo Bontempelli nel primo numero di «Quadrante»: «Il massimo della espressione, il minimo di gesto, terrore del lento, disprezzo per il riposo, edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce, la bellezza intesa come necessità, il pensiero nato come rischio, l'orrore del contingente» .
L'edificio che BBPR propone è composto da due volumi a L, di diversa dimensione, che si compenetrano. Il più piccolo sporge rispetto all'allineamento delle fronti stradali, creando un trattenuto movimento plastico. Lo scarno disegno dell'involucro esterno (composto da asole, finestre quadrate e da una rientranza verticale, al lato del volume in aggetto, occupata da 5 terrazzini) indica l'intento di stabilire una cesura tra interno ed esterno (rimarcando un 'filtro' tra la sfera pubblica e quella privata) e una debole volontà di istituire rapporti relazionali con l'intorno se non di natura puramente geometrico-proporzionale. E' chiaro che il nuovo non può cercare un'integrazione con l'architettura preesistente (di un passato prossimo o lontano che sia) per non perdere la propria identità, ma soprattutto la spinta etica e contestatrice che lo muove.
A piano terra, al contrario, la struttura risulta permeabile; e lo spazio esterno sembra penetrare nell'organismo, irradiandosi al suo interno, pur attraverso un procedere misurato e controllato. Il piano a livello della strada non sembra volersi 'chiudere' verso l'esterno, ma piuttosto tendere a dialogare col flusso continuo della città; e l'automobile posta in primo piano (nello scorcio prospettico rappresentato in una tavola) ne è, in qualche modo, il simbolo.
Interessante corollario a questa idea di architettura "qualsiasi" (nell'accezione di BBPR che è stata sommariamente delineata) è la proposta di Perressutti di Albergo per un "qualsiasi" corso, presentato sul secondo numero di «Quadrante».
Ampliamento della Villa Venosta a Gornate Olona, Varese. E' un progetto di restauro e di riadattamento di un edificio realizzato nel 1100 e poi rimaneggiato a più riprese fino alla metà del 1800. Si tratta di un intervento prevalentemente rivolto all'interno dell'organismo. L'unica aggiunta all'esterno è un corpo di ridotte dimensioni da cui parte una struttura a due piani in legno di larice, che circonda due lati dell'edificio storico, terminando con una scala a chiocciola. La struttura è distaccata dalle pareti murarie e sorregge una passerella-belvedere affacciata sulla valle dell'Olona.
In seguito, il disegno a L della passerella si trasformerà in T , con l'aggiunta di un altro braccio.
Due tematiche si segnalano in quest'opera: la prima riguarda la struttura in legno (volutamente 'estranea' come materiale, ma suggestivo e fantasiosa come immagine) che, anche in questo caso, funge da tramite, per regolare il rapporto tra preesistenza e nuovo; la seconda è l'idea del percorso aereo (del belvedere), particolarmente caro a BBPR che verrà ripreso, ad esempio, nel raffinato progetto della Colonia elioterapica a Legnano (1938), demolita nel 1956.
Il Piano regolatore della Valle d'Aosta ; nasce dalla necessità di dare sviluppo ad un'economia turistica arretrata. Per realizzare tale salto di qualità gli architetti puntano sull'attuazione di un sistema stradale efficiente, nonché su un radicale ammodernamento complessivo del sistema infrastrutturale e legislativo, che richiede l'intervento dello Stato.
La proposta progettuale di BBPR è il prodotto di uno studio sociale, economico, architettonico di vasto respiro, condotto con notevole scrupolo analitico. Essa, si sviluppa su tre punti.
Il primo è un'indagine delle condizioni delle abitazioni, seguendo modalità già sperimentate per il piano di Pavia.
Il secondo è il parallelo, che viene istituito, tra le radici romane di Aosta e due città prese a modello (Timgad e Pompei), per operare il ridisegno della sua struttura urbana a partire dall'inserto nel suo tessuto di due assi ortogonali. «Il piano regolatore nelle direttrici tracciate dell'Aosta romana» è scritto nella relazione di progetto, «riporta al loro valore primitivo il cardo e il decumano ed a queste linee armonizza la nuova città [...]. I quartieri residenziali progettati si estendono a nord dell'Aosta romana in mezzo al verde; la zona intra muros a nord del cardo viene rinnovata completamente sia negli edifici pubblici che nelle case d'abitazione; la zona a sud viene, per la parte lungo l'arteria di traffico, assegnata agli edifici commerciali e per il resto abbandonata (demolizione dei vecchi edifici e divieto di nuove costruzioni). Il traffico lungitudinale è affidato a due arterie, una di carattere turistico che traversa la città romana, l'altra a carattere di transito veloce più a nord (eventualmente in trincea). Il traffico trasversale è affidato all'arteria che segue l'antico decumano» .
La sistemazione urbanistica segue il criterio delle zone specializzate per funzioni. Quelle destinate ad abitazioni hanno tre tipologie: case alte, a schiera e isolate. Gli edifici pubblici (Palazzo Comunale e Casa Littoria) sono posizionati attorno alla piazza centrale, come pure quelli commerciali (che proseguono, poi, lungo le strade principali). All'interno delle mura, sono previsti anche alberghi, ristoranti ed alcuni monumenti storici isolati, circondati da fasce verdi di rispetto e vie d'accesso rettificate. All'esterno delle mura, a nord e lungo la strada del Gran Sambernardo, si trovano due fasce di verde pubblico; e, inoltre, la zona militare che cinge buona parte della città, e la zona industriale lungo la Dora.
Il terzo è il carattere complessivo dell'impianto urbano fortemente improntato nel suo disegno ad un formalismo di tipo astratto. Ma qui l'idea di astrazione riguarda anche il versante della scelta di fondo di una pianificazione "sostanzialmente eversiva", rappresentata, come osserva Ezio Bonfanti, dal prevalere di una caratterizzazione turistica. «Agendo in questa "beata astrazione", per usare le parole di Pagano, tornano al pettine i soliti nodi», scrive Bonfanti, «primo fra tutti l'insufficiente approfondimento da parte della cultura razionalista del problema della città [...]. E' significativo quanto poco partecipassero alla discussione i razionalisti milanesi; "Casabella" si limitò a lamentele molto generiche, mentre "Quadrante" ignorò pressoché ogni cosa» . In questo senso, egli vede nel piano per Aosta un chiaro documento di contraddittorietà e di incertezza della visione urbana dei razionalisti italiani, in cui «la moralità dell'ordine geometrico si sposa alla retorica cardo-decumanica della "Aosta romana"», senza essere in grado di sottrarsi alla compromissione. La proposta resta, per Bonfanti, una «testimonianza interessante dell'interpretazione "museografica" dei monumenti [...] ed anche di una concezione della forma della città che, pur nel suo irrealismo, parrebbe paurosamente salda» .
Progetto per un complesso scolastico nel centro di Robbio Lomellina, Pavia. L'area a disposizione è situata a sud-est del centro della cittadina. Il suo perimetro presenta una configurazione a L in quanto si sviluppava attorno ad un ottocentesco complesso manufatturiero composto da più edifici (in mattoni, a due piani con tetto a doppia falda) liberamente articolati attorno ad una vasta corte centrale. E nella parte opposta a detta preesistenza, come ulteriore (e ideale) punto di confine del lotto, la chiesa di San Pietro.
Le ipotesi elaborate da BBPR, sono due, stranamente molto diverse tra loro. Entrambe, per ragioni diverse, non verranno realizzate.
La prima non tiene conto delle caratteristiche del luogo, né delle strutture edilizie esistenti per cui, prevedendo alcune radicali rettifiche stradali, propone un impianto a U con i due bracci destinati rispettivamente alla scuola artigiana e a quella elementare. Al centro, una serie di volumi che ospitano: la palestra, il refettorio, i servizi e gli uffici. I lunghi corpi paralleli delle due scuole, infine, sono raccordati tramite passaggi vetrati che si concludono in uno spazio centrale che collega la palestra con il refettorio.
La seconda soluzione parte dai dati topografici, puntando a conformarsi attorno alla preesistenza più consistente stabilendo, altresì, una debole correlazione con la chiesa. In questo modo, sono posizionate nell'ordine: la palestra, la scuola elementare, i servizi, gli uffici, e un asilo nido. Tra il nuovo insediamento e quello esistente è previsto un percorso accompagnato da tratti di quinta muraria non eccessivamente alta, che presentano delle studiate possibilità di traguardo. Tale tenue presenza dà modo, comunque, a BBPR di riaffermare (opportunamente rielaborato) il tema del terzo elemento interposto come rappresentazione di collegamento-separazione.
Restauro dei chiostri di San Simpliciano a Milano . Si tratta di un convento benedettino con due chiostri del 1300 e del 1500. Nel 1700 il complesso è stato trasformato in caserma della cavalleria austriaca e in seguito, con l'unità d'Italia, in caserma dei bersaglieri e, alla fine, tramite una permuta con il Comune di Milano restituito nelle mani di religiosi che ne hanno voluto il restauro complessivo, realizzato poi in varie fasi.
Il primo intervento è stato di liberazione delle superfetazioni e di ripristino della struttura. Questo ha condotto all'apertura di via dei Cavalieri del Santo Sepolcro che collega via Ancona con piazza San Simpliciano.
La sistemazione degli interni in parte è stata destinata ad usi parrocchiali. L’altra parte del convento occupata dall'Ordine del Santo Sepolcro richiederà delle modifiche interne.
Infine, ulteriori opere di adattamento saranno rese necessarie, alla fine degli anni Sessanta, per la trasformazione del convento in sede della facoltà teologica regionale.
I vari interventi di sistemazione operati da BBPR, saranno condotti sulla base di due finalità: cercare di far prevalere all’interno della complessa stratificazione storica in cui si è andata riconfigurando l’opera nel corso dei secoli, la fase originaria (tardo medioevale); puntare costantemente sul mantenimento di un sottile equilibrio tra le numerose esigenze imposte dalle ragioni funzionali e la salvaguardia dell’identità del monumento. Questo secondo punto è stato sviluppato attraverso la guida di un accurato studio storico del manufatto che ha fornito i margini operativi delle trasformazioni dell'organismo e della configurazione dei nuovi inserti, sforzandosi di evitare, pur nella consapevolezza dell'arbitrarietà dell'atto interpretativo, il loro sopravanzare il valore estetico e documentale della permanenza storica.
In un'ala dell'edificio dei chiostri, nel corso del restauro dell'immobile, BBPR riuscirà a ricavare degli spazi per un nuovo studio; in questo modo, verrà abbandonata la vecchia sede di via Borgonuovo. Anche in tale occasione, intervento verrà svolto nel massimo rispetto dello spazio storico; e questo, attraverso una scarna tinteggiatura a calce delle pareti ed un arredo basso per non interrompere la continuità e il ritmo della successione delle volte che definiscono la spazialità degli ampi e caratteristici ambienti.

Usciti dal lungo tunnel della guerra come gran parte degli intellettuali italiani, BBPR sente il bisogno di scavare un solco profondo tra pensiero progressista e pensiero reazionario. Così scrive in quegli anni Rogers «Questo strazio e le ferite, il rumore dei crolli [...] lo sgretolio delle calcine e le compagini familiari, ho cercato di fare tutti miei perché mi si mutasse il sangue» .
Va considerato, tuttavia, come gli intellettuali antifascisti che si affacciano ai problemi della nascita di una democrazia e in particolare gli architetti, che devono affrontare il pressante problema della ricostruzione, nella grande maggioranza non fanno che riferirsi agli strumenti propri della loro formazione e, come osserva Alberto Asor Rosa, «[...] avrebbero potuto essere definiti, a seconda dei casi, crociani, liberali, liberali-moderati, gentiliani autocritici, spiritualisti, esistenzialisti, socialisti, socialisti democratici, socialisti liberali e, in misura molto minore, marxisti» . Comune, ad ogni modo, è la profonda esigenza di dare una definitiva e concreta forma alla missione sociale e civile dell'architetto, la cui opera deve idealmente corrispondere il più possibile alle grandi tendenze di trasformazione della società contemporanea.
Scrive ancora Rogers: «Si tratta di formare un gusto, una tecnica e una morale, come termini di una stessa funzione. Si tratta di costruire una società» . E' in questa posizione concettuale nata dalla dissoluzione del fascismo, così tipica di molti intellettuali di quegli anni, ricca di componenti umanitarie e sociali che, contraddittoriamente, si può rilevare la presenza di una fondamentale remora liberale, nella sistematica affermazione dell'autonomia dell'intellettuale e della produzione culturale e architettonica .
In questi anni si sviluppa un dibattito molto vivace e fortemente sentito sui problemi dei centri di origine storica a cui fa seguito una serie nutrita di convegni, dove i problemi centrali e più dibattuti sono: la città antica e la città contemporanea, le origini della scissura tra antico e nuovo, il paesaggio urbano e rurale (problemi che si possono sinteticamente raggruppare nella più generale indagine sui "modelli di sviluppo"), le trasformazioni necessarie all'interno del centro storico, inserimento del moderno nell'antico (ovvero "il problema delle preesistenze").
Gli interventi (in convegni, conferenze) e gli scritti di Rogers in questi anni tendono ad esaminare tale problematica rispetto a due scale differenti: quella urbanistica e quella architettonica.
Rispetto alla prima, particolarmente significativo e riassuntivo del dibattito che percorre gli anni Cinquanta è l'intervento di Rogers al VI Convegno Nazionale di Lucca del 1957, in cui propone un concetto di paesaggio inteso come un insieme unitario, senza soluzione di continuità che comprende la città e la campagna, la natura e l'architettura, che sia da tutti riconosciuto . «Ma sia chiaro fin d'ora», egli afferma, «che la verifica culturale di coloro che concorrono al processo urbanistico (gli architetti, i giuristi, gli amministratori, ecc.) deve applicarsi sull'intero territorio nazionale, perché tutta l'Italia è un capolavoro e non vi può essere neppure un metro quadrato dove si operi con minore amore e scarso senso di responsabilità» .
Tutti gli interventi in questi anni, bisogna osservare, tendono ad una analisi della situazione reale che solo una pianificazione generalizzata può modificare: l'urbanistica viene indicata come risolutrice di molti problemi. Ma Rogers si riferisce essenzialmente ad una sintesi di ordine artistico legata ad una particolare interpretazione del fenomeno che egli presenta. L'affermazione de «Il metodo "caso per caso" (che ho avuto più volte occasione di sostenere e che è stato spesso erroneamente interpretato come un atteggiamento agnostico di fronte al problema di una necessaria pianificazione) significa respingere l'astratto ragionamento per categorie al fine di affrontare, invece, l'esame di ogni fenomeno, attraverso una pianificazione concreta, la quale risolva ogni situazione come caso definito di particolari condizioni [...]. Il potere di un urbanista non può andare oltre alla esatta cognizione che egli ha dei suoi atti [...]. In ogni caso noi dobbiamo avere il coraggio di imprimere il segno della nostra epoca e tanto più saremo capaci di essere moderni, tanto meglio ci saremo collegati con la tradizione e le nostre opere si armonizzeranno con le preesistenze ambientali» .
Non diversamente dalla posizione che assume nei confronti della dimensione urbana e paesistica, la visione di Rogers a proposito dell'inserimento del nuovo nell'antico è chiaramente delineata in un articolo che comparirà su «Casabella» nello stesso anno. In esso, afferma che la salvaguardia dell'esistente è, ovviamente, la prima condizione della continuità, tuttavia, egli aggiunge: «[...] è evidente che ogni opera d'arte e anche quelle architettoniche non possono essere giudicate fuori dalla loro logica interna; ma la logica interna di un'opera d'architettura non può estraniarsi dalle leggi che sono necessarie al sistema generale dell'architettura stessa ed una delle leggi essenziali è per me quella di non poter prescindere da quel suo caratteristico processo di sintesi che include necessariamente il costante rapporto tra l'utilità e la bellezza» .
Non potendo eludere la questione del rapporto tra antico e moderno, è necessario, allora «[...] mediare i termini della cultura senza rinunciare a quei valori che garantiscono la sua continuità nell'ordine dell'intelligenza e della morale che sono i presupposti di ogni azione creativa» .
In questo senso, la formulazione di una dottrina basata sul principio del "caso per caso", per Rogers non è agnostica, ma piuttosto l'unica garanzia per un atti di intervento costruttivo nella realtà non eludibili. Ma è chiaro che tale posizione non deve intendersi come una 'licenza' generalizzata. «Il problema non è proibire ma di sapere agire; in ogni modo se anche qualcuno può avere il compito di un'attività tutoria», per quanto attiene agli architetti, devono essere in grado di «rappresentare una delle componenti dialettiche per stabilire l'equilibrio dell'esistenza: noi dobbiamo mettere l'accento sul costruire. I tutori saranno solo degli affossatori se non sentiranno che la loro responsabilità coinvolge nella difesa del passato anche la possibilità del presente e il nostro compito di costruttori non sarà pienamente attuato se non sentiremo in ogni azione il rispetto che dobbiamo alle sorgenti della cultura: dobbiamo sentire tutti quanti insieme di essere i protagonisti di una continuità senza la quale s'interrompe e si annulla l'energia e la ragione stessa del nostro operare» .

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