Hans Ibelings, Claus en Kaan Building, NAI Publischer, Rotterdam 2001
Rivista
L'architettura. Cronache e storia N° 561/562
di
luglio agosto, 2002
Autore: Michele Costanzo
La rassegna delle opere di Felix Claus e Kees Kaan, che Hans Ibelings presenta nel suo recente libro, copre un arco temporale che va dal 1988 al 2001, ossia dal momento della fondazione del loro studio professionale al presente. Dopo una beve e incisiva introduzione, che punta ad inquadrare la posizione culturale dei due giovani progettisti olandesi all'interno del variegato e composito panorama della ricerca architettonica contemporanea, l'autore prosegue nel delineare le significative tappe della loro attività attraverso la corposa e attenta analisi di una nutrita serie di progetti che, tranne alcune eccezioni (quale ad esempio, la proposta di ampliamento della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma), hanno avuto la fortuna di essere realizzati. In questo percorso di indagine un primo punto che Ibelings mette immediatamente in evidenza, per indicare le peculiarità insite nel taglio culturale che Claus en Kaan hanno voluto imprimere all'articolato sviluppo del loro lavoro, sta nella volontà di non porre distinzioni tra impegno teorico e pratica professionale; il loro intento primario, egli scrive, è stato quello di «rompere le barriere tra bassa pratica e alta teoria, tra architettura che serve i suoi scopi più immediati» e architettura che tende a procedere sulla base di una visione della realtà assolutamente astratta, totalmente idealizzata. Il tema costante, che attraversa e lega tra loro l'affollata sequenza delle opere di Claus en Kaan, per Ibelings è rappresentato da una forte attenzione verso la sobrietà, intesa quale fondamentale approccio rivolto al fare progettuale che privilegia le forme espressive-comunicative del semplice, dell'accessibile. Con questo, risulta implicito che essi vogliono manifestare una tensione reattiva al disagio dell'eclatante, del molteplice, dell'indistinto, tutti aspetti del reale che concorrono a designare, se non l'essenza della condizione del vivere contemporaneo, almeno un suo caratteristico nucleo costitutivo. Da qui, quasi come un riflesso speculare, la scelta del conciso ed incisivo titolo dato al libro: Buildig; e questo, nell'intento di indicare nella forma più evidente e spontanea il senso di ciò che, quasi immediatamente, si percepisce esaminando l'opera di Claus en Kaan, e che corrisponde, peraltro, all'obiettivo di fondo che essi si sono dati fin dalla fase d'avvio della loro professione: un caratteristico e personale modo di mirare sempre alla concretezza del fare. «In una cultura architettonica che è istupidita dal continuo shock del nuovo», scrive Ibelings, «è sorprendente il realismo con cui Claus en Kaan vanno realizzando i loro lavori, mettendo al primo posto il valore della familiarità» . Nella loro opera, il critico olandese individua dei tratti di 'realismo' che sembrano manifestare una caratteristica comune con la ricerca di alcuni protagonisti dell'architettura italiana del primo dopoguerra, quali Mario Ridolfi e Lodovico Quaroni, che è quella di non puntare «ad una innovazione formale o tecnologica, ma a rendersi interprete delle circostanze date»; e questo attraverso l'individuazione di caratteri formali che mettono in luce, come valori privilegiati dell'espressione architettonica, il senso della spontaneità, dell'intimità. A partire da tale intenzionalità di fondo, due risultano essere gli ambiti in cui gli autori, all'interno del processo configurativo da essi instaurato, tendono ad esercitare la loro attenzione prevalente. Il primo fa riferimento alla definizione della figura, corrispondente alla costruzione considerata nel suo insieme, nei confronti della quale essi applicano un processo riduzionistico. L'architettura di Claus en Kaan, osserva Raphael Moneo nel suo breve scritto di presentazione, «è pensata in termini volumetrici, in rapporto alla forma di un solido geometrico che vuole diventare edificio -casa, scuola, ospedale, fabbrica- una volta che tali entità hanno avuto modo di situarsi al suo interno»; tale osservazione, è interessante sottolineare, mette assai bene in luce il punto d'arrivo del processo di semplificazione, di depurazione della forma messo in atto dagli architetti, che è quello di raggiungere una sorta di sua 'autonomia' rispetto alla funzione. Il secondo si rivolge alle qualità descrittive, illustrative dello spazio da parte degli elementi di rivestimento, delle strategie di interazione negli accostamenti di differenti campi cromatici, di contrastanti valenze materiche, oltre che del dettaglio in sé, che conducono all'attenzione ravvicinata dell'oggetto architettonico, ad una diversa sensibilità, ad un differente rapporto con la 'costruzione'. Tutto questo, in altro senso, induce a conferire un maggior valore al modo in cui l'edificio si inserisce nel luogo, al disporsi della struttura sul terreno. In effetti, la scelta di questo approccio 'materiale' all'architettura da parte di Claus en Kaan, o più precisamente, teorico-pratico, è il frutto di una fondamentale scelta pragmatica «non vediamo la ragione di lamentarci di quella parte immutabile della società in cui lavoriamo. Adattiamo e indirizziamo la cultura del consenso a nostro vantaggio». Constatata la perdita d'autorità del progetto essi non puntano più alla ricerca dell'originalità della forma, «come la sabbia della riva che continuamente si trasforma attraverso l'inarrestabile movimento del mare lungo la battigia». L'abbandono dell'originalità è piuttosto una forma di liberazione: da una lato dalla costrizione creativa estetico-formale; e dall'atro della fantasia, che per loro è tutta rivolta alla conoscenza tecnica, nonché a valori quali 'capacità' elaborativa e 'perizia' esecutiva.