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Il fine dell'architettura
Rivista VEDUTE N° 0
di , 2009
Autore: Michele Costanzo
Articoli Architettura, come infiniti altri termini della nostra lingua, quali: arte, musica, letteratura, poesia ed altri ancora, relativi ad attività creative o di ricerca epistemologica, può rispondere ad una molteplicità di significati astratti o concreti, di intenzionalità espressive/comunicative e di realtà dagli aspetti multiformi. E' un sostantivo che può assumere anche un significato specifico se accompagnato da scelti vocaboli di contorno che ne delimitano gli ambiti di valore e di interpretazione, i margini di recondite intenzionalità.
Si può affermare che la parola architettura è, in definitiva, un'espressione onnicomprensiva che include in sé la nozione del pensare, del riflettere in senso logico, dell'immaginare con spirito creativo, dell'organizzare, dello scegliere, del controllare, del realizzare; corrispondente, dunque, ad un processo ideativo/realizzativo del quale però la società è interessata, disposta a cogliere solo la sua parte conclusiva: quella in cui il progetto è ormai giunto nella fase finale del suo percorso e si è materializzato in un oggetto concreto, tangibile e fruibile ed esteticamente valutabile.
La storia dell'architettura, per l'appunto, è strutturata in modo da comporre (da raccogliere in modo organizzato) la lettura critica di una serie di "conclusioni" di detti percorsi, la "narrazione" di esiti costruttivi, di edificazioni (non importa se non più esistenti o ridotte a rudere) divenute oggetti concreti, posseduti, vissuti, sperimentati nella loro intrinseche qualità simboliche o strettamente utilitaristiche, in definitiva, goduti nella loro essenza di manufatti edilizi.
Non a caso, la rivista di Bruno Zevi «L'architettura. Cronache e storia», nata negli anni Cinquanta, in linea con una tendenza, peraltro abbastanza diffusa in quegli anni in Italia come nel resto dei paesi occidentali, presenta, analizza criticamente opere quasi esclusivamente realizzate.
Al contrario, la rivista di Paolo Portoghesi «Contospazio», fondata alla fine degli anni Sessanta, con l'originale rubrica "architettura interrotta" introduce un aggettivo che mette in luce l'esigenza di un cambio d'approccio al progetto, un diverso criterio di considerare la sua essenza per cui da manufatto ultimato, concluso, si trasforma in processo, che viene dilatato nei diversi momenti del suo farsi.
Nella nota redazionale d'accompagno a tale sezione, si legge: «[...] l'aggettivo designa genericamente una condizione di sospensione, un arresto innaturale. Intenzionale o provocato. Ma questa condizione, senza mancare di una causa generale e costante, che può essere sintetizzata nella sottrazione della città all'architettura, si presenta in una serie di forme diverse» , che sono individuate in una stringata tassonomia di progetti incompiuti o destinati a rimanere tali: quali quelli eseguiti in occasione di concorsi o di ricerche teoriche oppure realizzati, ma "concettualmente interrotti", «[...] in quanto condizionati nella loro attuazione in confini che sono riduttivi rispetto alla globalità dei principi che li ispirano» .
In questi anni, inizia a farsi strada nella critica architettonica un'attenzione destinata a diffondersi in maniera sempre più generalizzata, rivolta non più esclusivamente nei riguardi dell'opera in sé conclusa, ma anche nei confronti delle tappe che hanno definito tale percorso progettuale/costruttivo, al fine di svelare il pensiero che lo sottende e, dunque, un senso profondo dell'opera che va aldilà di ciò che comunica il manufatto stesso come "presenza". Per cui, in conformità a tale principio risultano essere particolarmente indicativi alcuni definiti momenti del suo svolgimento, in quanto portatori, rivelatori essi stessi, d'importanti valori teorico/formali.
In tale insieme di materiali è racchiuso l'aspetto mentale/riflessivo che anticipa l'opera ed è un tratto proprio del suo autore, come una "scrittura" che, come afferma Michel Foucault, è destinata a detenere la verità. «Si tratta anzitutto dell'indistinzione tra ciò che è veduto, e ciò che è letto, tra l'osservato e il riferito, della costruzione quindi d'una falda unica e liscia sulla quale sguardo e linguaggio si intersecano all'infinito; si tratta anche, inversamente, di un linguaggio sdoppiato, senza mai alcun termine assegnabile, dalla ripetizione ostinata al commento» .
Sembra, così, che nel corso degli anni Sessanta, si sia sentita da più parti la necessità di riservare un ruolo equipollente, ma contrapposto tra "le parole e le cose", tra immagine pensata e immagine realizzata; e questo, a seguito delle diverse capacità d'analisi e di confronto acquisite dalla critica che ha messo a disposizione nuovi spazi di sviluppo del pensiero fino a consentire all'opera di farsi levatrice di scelte. In seguito a ciò, comincia ad affermarsi dunque una visione scissa del progetto, come prodotto di un suo duplice piano di lettura: l'uno appartenente alla sfera teorico-ideativa, l'altro a quella fisico-costruttiva.
Nel corso della storia, osserva Rafael Moneo, l'architetto per una serie di ragioni principalmente pratiche si è servito del disegno per pensare o meglio prefigurare la propria opera come futura realtà; ma il suo obiettivo ultimo «[...] era l'opera costruita, rimanendo i disegni pure rappresentazioni di una realtà che, non essendo ancora tangibile, era necessario descrivere [...]. Questa tradizione si è prolungata sino ai nostri giorni ed è, ancora, stata lo strumento di rappresentazione del quale si sono serviti la maggior parte degli architetti del Movimento moderno» .
Al contrario, il ruolo che Aldo Rossi conferisce al disegno, aggiunge l'architetto spagnolo, nel senso di anticipazione e di autonomia rispetto all'opera, è assai sintomatico come segno della sua stessa crisi (una crisi di identità e di ruolo) che comincia, appunto, a delinearsi negli anni Sessanta. «Le immagini di Modena, quelle che i disegni ci hanno mostrato si trasformano in realtà, ma lo fanno senza perdere la loro apparenza d'immagini. La costruzione non ha sottomesso l'architetto: le falde aguzze seguitano ad essere tali, i muri nudi non sono stati coperti, i corridoi continuano a presentarsi come fossero senza fine. Rossi è stato capace di superare la prova del fuoco che la costruzione dell'opera suppone e questa prova ha, alla fine, dimostrato che le immagini presentite, disegnate, erano forti, tanto forti, tanto determinanti da non lasciare via d'uscita alla realtà; l'immagine è la realtà stessa. Ad essa tutta la gloria...» .

Nel tempo presente, bisogna osservare, l'immagine architettonica sempre più sembra voler tendere ad acquistare una sua distinta autonomia; così, strutture dalla forma marcatamente "astratta", ora puntano a rappresentare principi teorici, ora la chiave di lettura di tortuosi, soggettivi cammini del pensiero. In questa fase di conquistata libertà dell'espressione, tutto questo, trova spazio e attenzione, nelle riviste, nei mass media; grazie soprattutto al supporto dell'elaborazione digitale che rende la sua rappresentazione virtuale assai prossima a quella di un oggetto o di uno spazio reale. Sembra, così, che il mondo dell'immagine abbia conquistato la possibilità di vivere una propria esistenza autonoma.
Sulla scia di tale cambio d'interesse avvenuto nell'area progettuale e, più in generale, ideativa (che, come si è visto, risulta essere più ideologica che tecnica) molte pubblicazioni specializzate ormai tendono a non porre più alcuna differenza tra progetto e opera costruita, presentando indifferentemente architetture costruite e architetture interrotte.
L'istituzione in maniera stabile (in quanto comunemente accettata dalla critica e dai progettisti) di una forma d'intercambiabilità tra il mondo reale e il virtuale si è, paradossalmente, trasformata in un'occasione, in sé suggestiva, per attuare un rovesciamento di senso della stessa opera costruita, la cui immagine sembra, così, rimanere anch'essa avvolta da un illusionistico effetto d'immaterialità.
«L'architettura deve appropriarsi della nozione di "deviazione", di spostamento, cioè della percezione del sensibile dal materiale all'immateriale» , afferma Jean Nouvel, portando a sostegno l'esempio di un suo progetto, la Fondation Cartier, in cui con precisa intenzionalità mescola immagini reali e virtuali; dove tutto questo si traduce «[...] nel fatto che non so mai se nello stesso piano vedo l'immagine virtuale, oppure l'immagine reale. Se guardo la facciata, dato che è più grande dell'edificio, non so se vedo il riflesso del cielo, oppure il cielo in trasparenza... Se poi osservo l'albero attraverso i tre piani vetrati, non so mai se vedo l'albero in trasparenza, davanti e dietro, oppure il riflesso dell'albero» .
E' chiaro che questo percorso intellettualistico intrapreso dall'architettura, per certi versi, ha reso i materiali da essa prodotti, più letterari, narrativi, internamente percorsi da una maggiore riflessione estetica o, comunque, criticamente implicati con la condizione del presente, ma assai distanti dalla sensibilità e dai bisogni degli utenti a cui si dovrebbero rivolgere e che dovrebbero fruirli.
Le ragioni di questa perdita di contatto con la società sono due.
La prima, è che nell'architettura contemporanea gioca un ruolo importante un processo di forte personalizzazione: l'opera tende a riflettere il mondo individuale, soggettivo, privato del progettista. Al contrario essa dovrebbe essere condivisa da tutti, per evitare la "sottrazione" dell'architettura alla città. Come nota, ancora, Moneo, «[...] non dovrebbe essere così personale da far sì che la sua presenza non venga più avvertita come appartenente alla dimensione dell'ambiente pubblico. Architettura significa coinvolgimento pubblico, dal momento in cui inizia il processo di costruzione al momento in cui si conclude» .
C'è un brano di Massimo Bontempelli, ne L'avventura novecentesca, in cui sviluppa questo concetto di "necessità" di passaggio del progetto, come andamento logico, dallo stato di appartenenza intellettuale ad una sfera privata, ad una pubblica; che potrebbe essere accostato anche ad un evento naturale, quale quello di un uccello che una volta spiccato il primo volo acquista, nel contempo, una totale indipendenza e distacco da chi l'ha generato. «Il compito primo e fondamentale del poeta», scrive dunque Bontempelli, «è inventare miti, favole, storie, che poi si allontanano da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini, e quasi cose della natura. Tali diventano le opere dell'architettura; spesso ignoriamo l'autore dei monumenti più illustri, che con la maggiore naturalezza si sono fusi col loro suolo e il loro clima» .
La seconda, è il riflesso di due questioni emergenti nel processo dello sviluppo urbano che sono quelle della mobilità e della densità. Esse mettono in crisi le relazioni umane e producono la perdita di contatto con lo spazio urbano, rendendo altresì problematica la stessa identità individuale.
L'uomo, al contrario, ha la necessità di sviluppare la vita associata e tessere rapporti interpersonali; e per questo, ha bisogno di spazi urbani ben conformati, in cui tutti possano vivere e riconoscersi; come afferma Jacques Derrida, essi sono il luogo stesso dell'attesa e del desiderio.
A mettere in luce una vocazione dell'architettura come eminente fatto sociale, torna utile ricordare, in conclusione, la rivista di Giancarlo De Carlo, «Spazio e società», creata alla fine degli anni Settanta, interessata ad approfondire un rapporto, per così dire, totale e organico dell'oggetto architettonico con la città e il territorio.
Nell'editoriale del primo numero, l'architetto scrive: «L'ambito dell'architettura è la trasformazione dell'ambiente fisico tridimensionale e, in termini concettuali, ogni tipo di suddivisione in questo ambito in rapporto alla scala ha l'effetto di distorcere la comprensione e di sottrarre responsabilità al progetto. Perciò si fa confusione quando si distingue tra architettura e urbanistica, mentre si fa chiarezza quando le si riunisce in una unica categoria fenomenologica [...].
In termini operativi, invece, è necessario usare strumenti corrispondenti alle dimensioni -e alla densità delle circostanze al contorno- della questione che si affronta, ma questo proprio per poter cogliere la coerenza complessiva del fenomeno più generale di cui fa parte [...].
Oggi la legge che regola le relazioni tra le varie componenti della trasformazione dell'ambiente umano è quella dell'interdipendenza e il cambiamento procede su tutto il fronte, messo in moto da spinte che provengono dalle azioni o dalle retroazioni di una componente e dell'altra. Quanto alla trasformazione dell'ambiente fisico, è diventata una componente così importante da contenere alcuni aspetti fondamentali del destino della società umana» .


1)Dalla nota d'accompagno in «Controspazio» n. 1 giugno 1969, riproposta nei numeri seguenti.
2)Ivi.
3)Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1994, p. 53.
4)Rafael Moneo, L'apparenza come realtà. Considerazioni sull'opera di Aldo Rossi, in: Id,
5)La solitudine degli edifici, tomo II, Allemandi, Torino 2004, p. 66.
6)Ibidem, p. 70.
7)Il brano di Jean Nouvel è tratto da: Jean Baudrillard, Jean Nouvel, Architettura e nulla.
8)Oggetti singolari, Electa, Milano 2003, p. 11.
9)Ibidem, p. 12.
10)Rafael Moneo, La solitudine degli edifici, in: op. cit., p. 153.
11)Massimo Bontempelli, L'avventura novecentesca, Vallecchi Firenze 1974, p. 19.
12)Giancarlo De Carlo, La testata, «Spazio e società» n. 1, gennaio 1978.

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